Si parla meno di intelligenza naturale che di intelligenza artificiale. Come se la prima fosse meno importante della seconda, sebbene questa derivi da quella. È vagamente paradossale. Sta di fatto che i trend delle ricerche effettuate su Google dimostrano che la forma di intelligenza che più incuriosisce è quella che gli umani hanno instillato nelle loro macchine più avanzate. Ma nel quadro delle discussioni sull’evoluzione tecnologica, il timore che l’artificiale sostituisca il naturale in molte occupazioni non può che alimentare la ricerca delle qualità umane che le macchine create dagli umani non possono sostituire. Uno degli esperti di questo argomento, Daniel Goleman, autore del bestseller “Intelligenza emotiva” (1995), mercoledì scorso era al Wobi di Milano: era un buon momento per chiedergli un parere. «Che cos’è l’intelligenza? Un insieme di capacità per elaborare l’informazione e passare all’azione. Ma le intelligenze sono diverse. L’intelligenza artificiale è fondamentalmente un modo per riconoscere regolarità nei dati: gli umani presi individualmente non riuscirebbero a fare quello che riesce alle macchine su questo terreno. Ma le macchine non sanno fare molte altre cose: per esempio non si possono innamorare». Il punto però è se le macchine possono sostituire gli umani sul lavoro. «Le capacità che servono per svolgere i compiti tecnici previsti dal lavoro sono importanti, forse talvolta sostituibili. Ma le capacità che servono per svolgere nell’insieme le attività richieste dal lavoro in modo eccellente non sono mai soltanto tecniche: anzi, per lo più riguardano l’intelligenza emotiva. Per realizzare una qualunque strategia aziendale occorre saper motivare, convincere, ascoltare e così via». Inoltre, in un mondo che cambia velocemente, occorre creatività: «Ma la creatività non è meramente la capacità di innovare. Serve a generare un valore che possa essere riconosciuto. E si tratta di un valore che non è necessariamente monetizzabile. Molti comportamenti di valore sono gratuiti: la gentilezza, l’attenzione alle esigenze degli altri, l’amichevolezza. Molte innovazioni fanno del bene senza fare denaro. In molti casi peraltro le aziende devono evolvere verso modelli che siano contemporaneamente profittevoli e benefici. Il che richiede assolutamente intelligenza emotiva». Soprattutto i millennials vogliono lavorare per aziende che sappiano elaborare una finalità della loro azione: «Oggi le aziende che vogliano attirare e trattenere talenti devono saper articolare uno scopo della loro azione d’impresa». Tutto questo richiede intelligenza emotiva. «I nostri dati dimostrano che la leadership aziendale oggi deve saper esercitare e sollecitare l’intelligenza emotiva della squadra che collabora a realizzare lo scopo dell’impresa». E l’intelligenza emotiva si può imparare o perfezionare, sostiene Goleman, impegnato in un’attività di coaching e training in collaborazione con la Key Step Media. L’economia della felicità, le attività richieste dalla cura per la qualità, le imprese orientate alla sostenibilità non si possono fare soltanto con le macchine. Alla fine, il senso di umanità ha bisogno di… umani.
Articolo pubblicato su Nòva il 4 novembre 2018