A giudicare dal modo in cui l’Europa progetta il proprio futuro, pensando alle prossime generazioni, l’alternativa tra l’approccio tecnico e quello umanistico sembra scivolare nel passato. E non per giustapporre le due culture, ma per recuperare una relazione simbiotica che la tradizione della cultura europea ha coltivato dal Rinascimento in poi. In questa cultura, alla quale manca soltanto un nome, gli obiettivi e gli strumenti sembrano venire entrambi dalla stessa sorgente che vede la scienza, la tecnologia, l’immaginazione, l’etica come i frutti sintetici di un pensiero totalmente umano che assume la sostanza di una visione da concretizzare. Una visione che non si può realizzare senza conoscere la scienza e praticare l’immaginazione, che non si può portare a terra senza creare tecnologia ed esplorare la profondità del pensiero. In questo spirito, i Politecnici di Milano e Torino, sulla scorta di quanto si fa negli atenei tecnici in giro per il mondo, stanno aumentando lo spazio per le materie umanistiche nelle loro proposte formative. In questo spirito, la progettazione dell’intelligenza artificiale non può più prescindere dall’attenzione alle sue ricadute sociali, come sostengono alla Global Partnership on Artificial Intelligence. In questo senso, la proposta del Digital Services Act resa nota qualche giorno fa dalla Commissione Europea richiama le aziende tecnologiche alle loro responsabilità sociali. Del resto, la convergenza della scienza del clima con la politica del Green New Deal e la concezione della tecnologia digitale come abilitatore della trasformazione necessaria a realizzarlo sono il frutto di un pensiero che non potrebbe esistere senza competenza tecnico-umanistica. C’è qualcosa di identitario in tutto questo.
Se ne parla sul numero di Nòva del 20 dicembre 2020 e su 24+ (edizione in abbonamento). Per la foto vedi Futurix.