Viktor Mayer Schönberger: una guida per il futuro digitale

Articolo pubblicato su Nòva, Il Sole 24 Ore, domenica 21 luglio 2024


Tra il primo, incerto, decollo dell’aereo dei fratelli Wright, che riuscì a staccarsi di qualche metro dalla Terra, e il fantastico volo dell’Apollo 11 che portò i primi umani sulla Luna sono passati soltanto sessantasei anni, circa. A pensarci, si tratta di un’accelerazione tecnologica che lascia senza fiato e che forse stupisce chi cede alla tentazione di sopravvalutare il progresso tecnologico contemporaneo. In effetti, nei cinquantacinque anni successivi, gli umani hanno fatto anche molti passi indietro prima di decidere di tornare sulla Luna, anche se hanno generalizzato la possibilità di volare, fino ai quasi 5 miliardi di viaggiatori in aereo raggiunti prima del covid nel 2019. Soprattutto, in quel periodo, hanno progredito con i computer, tanto che nelle tasche di oltre 4 miliardi di loro si trova una potenza di calcolo superiore a quella della quale disponeva la Nasa all’epoca della sua grande impresa extraterrestre. Il quadro interpretativo del progresso non offre una prospettiva lineare: perché cambiano sia le tecnologie che i punti di vista di chi cerca di comprenderne le conseguenze. Ma la sfida contemporanea è ancora più implacabile: gli umani, oggi immersi nello sforzo pervasivo e ondivago di capire l’intelligenza artificiale, si trovano ad affrontare un problema originale, nel quale le tecnologia da interpretare e i punti di vista di chi ne cerca le conseguenze tendono paradossalmente a convergere nel grande tema dell’evoluzione della conoscenza. Ci vuole una bussola.

Viktor Mayer Schönberger, docente a Oxford, è una guida essenziale per ricostruire il senso di quello che accade nel rapporto tra gli umani e le loro tecnologie. Nel 2013 ha scritto con Kenneth Cukier il bestseller “Big Data” (John Murray) che ha posto il tema dei dati al centro del dibattito. Nel 2018, ha riflettuto, con Thomas Ramge, sulle conseguenze della digitalizzazione sulla struttura dei mercati in “Reinventing capitalism in the age of big data” (John Murray). Nel 2021 ha pubblicato con Cukier e Francis de Véricourt “Framers” (Dutton) un libro di grande successo che ha innovato il modo di vedere come gli umani comprendono il mondo. E nel 2024, con Urs Gasser, ha scritto “Guardrails: guiding human decisions in the age of AI” (Princeton University Press). E poiché l’intelligenza artificiale e i big data sono due facce della stessa medaglia, Nòva gli ha chiesto di commentare il tema tecnologico di attualità per eccellenza.

«Intelligenza artificiale è forse una locuzione sbagliata. Quello che stiamo vedendo in realtà è un machine learning guidato dai dati, un’automazione della statistica» dice Mayer Schönberger. «La scatola nera che usa i dati non riconosce le causalità ma solo le correlazioni. Non interpreta, calcola. E ottiene risultati eccellenti, ma solo sulla base di ciò che è avvenuto in passato. A questo punto, l’importante è pensare al ruolo degli umani per il futuro».

Già. Le macchine che prevedono non hanno idea dell’avvenire. «Gli umani che pensano per quadri interpretativi, per “frame” appunto, possono immaginare quello che non esiste e che invece si può realizzare. Raccontandosi storie possono giocare con i modelli che usano per pensare le conseguenze» aggiunge Mayer Schönberger. «La grande attività degli umani è quella di esplorare tutte le possibilità offerte da un “frame”, da un modo di vedere la realtà. E lo fanno anche producendo continuamente nuovi strumenti tecnologici. Insomma, tutte le innovazioni cercano di svolgere le loro specifiche funzioni pratiche, ma condividono un significato comune: sono forme diverse di un’unica grande impresa umana, l’impresa di comprendere la realtà». Alcune innovazioni erano proprio dedicate a facilitare la comprensione. «Una grande innovazione, per esempio, è avvenuta quando si è introdotto lo spazio tra le parole nei testi scritti: ha facilitato la lettura silenziosa individuale, creando un’alternativa alla lettura di gruppo, abilitando le persone a valutare da sole la conoscenza trasmessa. Anche il digitale, in fondo, è un’innovazione che riguarda l’accesso alla conoscenza». E l’intelligenza artificiale ne è la forma più recente: «L’intelligenza artificiale aiuta a capire operativamente quello che esiste e, insieme, a esplorare il frame che adottiamo per sapere quello che esiste. Dunque ci spinge ad andare oltre quel quadro interpretativo. Noi poniamo domande alla macchina. Per poi farci domande su noi stessi. E superarci. Forse si può parlare di simbiosi. Di certo è un rapporto evolutivo: l’intelligenza artificiale serve a conoscere quello che esiste senza reinventare la ruota. Per ricordare agli umani di andare oltre la ruota».

Insomma. L’intelligenza artificiale è un nuovo strumento che serve agli umani per imparare come società. Il problema non è lo strumento ma il sistema di priorità. «Spendiamo miliardi di dollari per questo strumento. E non spendiamo neppure lontanamente altrettanto per le istituzioni che servono a garantire un apprendimento di qualità». In un contesto mediatico dominato dai social network ce ne sarebbe bisogno. «I social media sembrano strumenti di apprendimento. Invece sono esperienze di rumore indistinto che creano dipendenza. È tempo di innovare la scuola e investirci miliardi». Perché la nuova epoca è caratterizzata da un tipo di innovazione che si dà una direzione.


Foto: “Wright Brothers’ First Flight” by e-strategyblog.com is licensed under CC BY 2.0.