La condizione dei giganti americani dell’economia digitale è paradossale: o infrangono le regole europee o disobbediscono a quelle americane, per quanto riguarda il trattamento dei dati degli utenti che si trovano in Europa. La Corte di giustizia europea ha tolto di mezzo il safe harbor, lo strumento giuridico che serviva a gestire il passaggio di dati dai server europei ai centri di elaborazione negli Stati Uniti: una decisione presa sulla scorta della evidente incapacità di salvaguardare la privacy degli europei di fronte alle registrazioni di massa operate dai servizi Usa. Nello stesso tempo, il Dipartimento di Giustizia americano li obbliga a contraddire l’Europa. Il caso della Microsoft è esemplare: il Dipartimento chiede di leggere la posta degli utenti registrata sui server europei dell’azienda americana, che si oppone. Il caso va avanti da due anni ed è ora in appello in una corte federale a Manhattan. «Se dovesse vincere il governo», ha detto Peter Swire, esperto di privacy e docente a Georgia Tech intervistato da Security Info Watch, «le altre nazioni avrebbero il diritto di chiedere la stessa cosa e i dati dei cittadini americani dovrebbero essere aperti ai governi stranieri». Un labirinto.
Come se ne esce? «Le aziende dovranno per ora ricorrere a strumenti come clausole contrattuali standard, già approvate da Commissione e Garante Privacy» risponde Massimiliano Masnada dello studio legale Hogan Lovells: «Ma strategicamente la questione è più ampia. Le aziende lavorano in un contesto nel quale si scontrano due modelli giuridici e culturali, quello americano e quello europeo, molto diversi: il problema non è più giuridico, è politico». Si rende cioè necessario un nuovo accordo tra governi.
Gli americani privilegiano la libertà d’azione delle imprese rispetto alla privacy dei cittadini. Gli europei la vedono esattamente all’opposto. Una differenza esacerbata dalla sorveglianza di massa operata dai servizi americani rivelata da Edward Snowden. La discussione che ne consegue si svolge nel contesto della riorganizzazione normativa resa necessaria dalla smaterializzazione del commercio globale. Sullo sfondo, con discrezione molto controversa, gli stati del Pacifico discutono il Ttp e quelli dell’Atlantico si occupano del Ttip. E intanto le grandi potenze, Cina e Usa, si accapigliano sulle regole per tenere a bada gli hacker internazionali.
Se si devono accordare i governi, su quali interessi comuni potrebbero incontrarsi? Forse il gigantismo dei colossi della rete – i cui comportamenti per esempio fiscali preoccupano i governi di entrambe le sponde dell’Atlantico – potrebbe introdurre considerazioni politiche convergenti. Come in passato è avvenuto per le autorità antitrust europee e americane nei confronti della Microsoft. Ma sarebbe una soluzione in negativo. Molto più importante è una strategia di sviluppo rinnovata. Che garantisca la libertà di innovare: una convergenza sui diritti come la neutralità della rete e l’interoperabilità delle piattaforme potrebbe mettere d’accordo i governi americani ed europei e costituire una precondizione di sviluppo per il sistema dell’innovazione.
Articolo uscito sul Sole 24 Ore il 7 ottobre 2015