Innovazione. È il punto di partenza di Vincenzo Boccia, al suo discorso di esordio come presidente della Confindustria. È il richiamo al compito storico degli imprenditori che si attrezzano per l’economia della conoscenza e investono sul futuro. Soprattutto è l’azione discriminante, quella che distingue tra le imprese che superano la crisi e quelle che ci restano sotto. Le imprese che colgono le opportunità sono quelle che non tagliano le voci di bilancio strategiche, l’investimento in ricerca e innovazione. Le altre non sopravvivono.
Sicché gli imprenditori devono innanzitutto fare gli imprenditori. Il che significa che devono innovare, che è l’essenza del loro mestiere. E la Confindustria deve essere al servizio degli imprenditori che si trovano a operare scelte fondamentali, perché vadano nella direzione giusta.
Tutto questo costituisce un bel punto di partenza. Identitario. Pragmatico. Anche politico, visto che serve a dire che prima di chiedere aiuto ad altri le imprese devono dimostrare di sapere svolgere il proprio compito.
Con ambizione, con senso del contesto storico e con la consapevolezza del valore dell’ecosistema. La relazione tra le imprese avviate e il mondo in ebollizione delle startup, per esempio, è uno dei punti di attenzione più interessanti. Boccia crede nelle startup innovative, come aveva dimostrato, da presidente della Piccola industria, lanciando il progetto “adottup”, pensato per connettere le startup al tessuto delle imprese già avviate, per alimentare di innovazione chi ha già esperienza e per aiutare a trovare mercato chi è appena partito. Ma l’ecosistema innovativo è un valore per tutti e ora, da presidente della Confindustria, Boccia potrà, forse generalizzare la sua convinzione anche al mondo delle grandi imprese: perché riservino maggiore attenzione all’innovazione che possono acquisire dalle startup. Una tendenza che è già avviata, ma che può diventare ancora più consapevole.
Solo contribuendo al valore dell’ecosistema innovativo, le imprese potranno essere meglio comprese dalle altre grandi entità che costruiscono l’ambiente economico. Come le banche che devono comprendere il valore immateriale, qualitativo delle imprese e così imparare a rischiare con loro. Come la politica che deve alla fine arrivare a prevedere un credito di imposta per la ricerca che sia stabile, strutturale, legato non solo alla variazione degli investimenti ma anche alla loro entità. Legato cioè all’ambizione delle imprese che esplorano le possibilità dell’innovazione investendo sulle sue sorgenti scientifiche e tecnologiche avanzate. Il salto culturale necessario per attraversare questo complesso passaggio non è di poco conto. «Diventiamo tutti esperti di futuro» dice Boccia.
È necessario. Perché se quello che è accaduto finora sembra stravolgente, quello che si prepara è ancora più radicale. Il contesto della quarta rivoluzione industriale è un paradigma con il quale le aziende più avanzate si stanno già confrontando, ma che diventerà la realtà di quasi tutte. Le tecnologie digitali nella globalizzazi0ne ridefiniscono l’impresa: possono alimentare la crescita, la produttività e la competitività. Sono strumenti indispensabili, come lo smartphone e internet. Offrono opportunità senza paragoni, come lo sfruttamento intelligente dei dati, come la riprogettazione della fabbrica con l’internet delle cose, i sensori, l’intelligenza artificiale.
Non sono argomenti per specialisti. Il digitale non è un settore. È la prospettiva operativa di tutti. E non a caso Boccia ha tenuto in capo alla presidenza le deleghe per il digitale: perché non si tratta di un’attività specialistica, ma di una dimensione dell’innovazione che appartiene all’intero sistema imprenditoriale e che deve entrare nelle pratiche normali di tutte le imprese.
In tutto questo, va notato, non si sono parole d’ordine nate in altri paesi e in funzione di altre culture industriali. Piuttosto si legge il tentativo di elaborare una lista di priorità sulla base di un’ipotesi: che esista una via italiana all’innovazione. I motivi non mancano, in effetti, in un paese che è tra i leader mondiali anche nella produzione di macchine per l’automazione industriale, nei robot, nella sensoristica digitale, al servizio delle grandi filiere internazionali ma anche dei grandi brand nazionali che esportano. Lo si evince anche dalla considerazione sintetica che Boccia propone a chiosa di tutto il suo discorso sull’innovazione: l’indicazione strategica non è intesa a suggerire l’adozione di tecnologie per abbassare i costi ma a favorire la creazione di soluzioni che aumentano il valore. «E dobbiamo imparare a farcelo riconoscere nel prezzo».
Insomma: l’Italia della cultura, della bellezza, del design, della qualità della vita, della capacità di fare ricerca è l’economia che genera valore immateriale, il valore fondamentale nell’epoca della conoscenza. La tecnologia può alimentare la produttività e accelerare la generazione di nuovi prodotti. Ma la tecnologia all’italiana è fondamentalmente un abilitatore della qualità caratteristica della nostra cultura. Che può aspirare a spuntare prezzi più adeguatamente rispondenti al suo valore. La strada dell’innovazione all’italiana si può candidare ad affascinare i mercati internazionali. E quando ci riesce non ha rivali.
Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 27 maggio 2016