Nel canovaccio di una pièce interpretata nelle piazze seicentesche di
Francia e Italia, si raccontava di un marito tradito accusato
dell'assassinio della moglie che si difendeva dichiarando: "Non sono
stato io a ucciderla. E' stato il coltello!". La gente rideva. Anche
perché riconosceva immediatamente il paradosso: una tecnologia non è
responsabile e non determina le azioni delle persone che la usano. E
allo stesso modo si potrebbe ridere dell'idea che internet determini
libertà, solidarietà e pace. Invece, da una quindicina d'anni, per
ricordarci l'aspetto paradossale di quelle idee, c'è bisogno di
interventi come quello di Evgeny Morozov, pubblicato sul Sole 24 Ore di
martedì 27 aprile. Perché?
Non è insensato che i primi passi di
internet siano stati mossi anche in ragione di convinzioni ideologiche.
Perché internet non è una qualunque tecnologia. E' una tecnologia di
rete che, come insegna la cosiddetta "Legge di Metcalfe", ha un valore
che cresce esponenzialmente con il numero dei suoi utenti. E' una legge
che si applica al fax, al telefonino, a Windows, alla piattaforma
l'iPod-iTunes, alle apps dell'iPhone, a Facebook: a tutte le tecnologie
che servono in quanto sono utilizzate da molte persone e che valgono
poco se sono in pochi a usarle. Conseguenza: chi propone per la prima
volta una tecnologia di rete è sempre costretto a convincere molte
persone ad adottarla in un momento in cui non ha molto valore. Come fa?
I
grandi innovatori delle tecnologie di rete sono grandi visionari, nel
senso che investono su una tecnologia perché vedono dove può portare. E
sono capaci di raccontare la propria visione in modo che anche altri se
ne convincano. Sicché, molti adottano quella tecnologia, anche se non
funziona alla perfezione e ha ancora poco valore. I grandi innovatori,
insomma, sono leader culturali oltre che tecnologici. Convincono le
persone a contribuire al valore delle tecnologie che propugnano. Per
questo, spesso, ricorrono alle armi retoriche dell'ideologia, della
fascinazione, dell'illusione. Chi ricorda le metafore dei primi passi
di internet, dalla ragnatela mondiale alla biblioteca di Babele, dalle
autostrade dell'informazione alla città delle idee, avrà notato come i
blog si siano diffusi anche sulla scorta del principio della libertà di
espressione e i social network si siano affermati anche in base al
simulacro dell'amicizia. E non c'è dubbio che molti visionari sono
semplicemente idealisti col senso della concretezza, mentre i loro
seguaci rischiano di trasformarsi in tecnofili col senso del
fondamentalismo. Il rischio è che si formino bolle speculative e
illusioni filosofiche.
Ma il fatto è che l'evoluzione delle
tecnologie di rete non è quasi mai lineare. La visione degli inventori
dei blog era quella di una società di persone che tengono un diario in
pubblico: solo in seguito altri li hanno visti come nuovi strumenti
dell'informazione. La visione dei fondatori di Twitter era quella di
creare un sistema di sms via web: solo in seguito gli utenti hanno
trasformato la piattaforma in uno strumento di microblogging evoluto in
seguito in un metodo per segnalare pagine web e notizie o foto
interessanti. Queste deviazioni dall'idea originaria possono avere più
successo della visione iniziale. Derivano da una cultura vagamente
hacker, nel senso che è basata sull'idea che un meccanismo si può
smontare e rimontare conferendogli un senso e una funzione nuovi.
Ma
il cambiamento decisivo avviene quando una tecnologia di rete diventa
davvero popolare. Allora l'uso la modifica. Quando la società che ne
fruisce tende a coincidere con la società nel suo complesso, il senso
di quella tecnologia si confonde con l'insieme dei comportamenti e
delle visioni delle persone. E' allora che la cultura digerisce la
novità. E ne riconosce le sfaccettature. Fino a cessare di parlarne.
Oggi non si parla più del telefono o della televisione commerciale come
fonte di libertà. Come del resto nessuno pensa che il telefonino che ha
attivato il detonatore, quel giorno a Capaci, sia il responsabile della
strage. E' allora che si può pensare al sistema nel suo complesso. E
studiarlo con la consapevolezza della sua complessità.
In quel
momento, si possono tirare le somme. E riconoscere le varie
stratificazioni culturali che l'evoluzione della relazione tra una
società e una tecnologia hanno sedimentato nella storia. Sicché si può
tornare a leggere internet come un insieme: che contiene la cultura
degli hippies della prima ora delle bacheche elettroniche,
l'atteggiamento aperto e collaborativo degli universitari che hanno
dato alla posta elettronica o al web la loro prima incarnazione, le
preoccupazioni dei militari che hanno disegnato la logica dei pacchetti
di dati, la fame speculativa dei finanzieri della fine degli anni
Novanta, l'orientamento al business degli inventori del commercio
elettronico, l'iniziativa tecnologica degli inventori dei motori di
ricerca, l'intuizione sociale dei generatori di social network, le
molte speranze dei cittadini attivi, l'azione operativa dei vari gruppi
violenti che si organizzano in rete, la repressione dei governi
autoritari che trovano i dissidenti con le foto pubblicate su Flickr…
Quando la società è su internet, internet è complessa come la società.
Ci
resta una sintesi? Forse sì. La rete è tanto malleabile, tanto
pubblica, tanto standard da consentirci di poter vedere in ogni
problema un'opportunità e in ogni critica un motivo in più per
inventare una soluzione. Fino a che la rete è aperta, anche la società
è potenzialmente un po' più aperta: ma solo se qualcuno coglie
l'occasione. E agisce di conseguenza. Ma per capirlo, occorre una
consapevolezza. La libertà si può descrivere in molti modi: ma di
sicuro non è automatica