Ecologia dell'informazione

Nei primi dieci anni del nuovo millennio, il mondo ha assistito a una
fioritura eccezionale di iniziative nel sistema dell'informazione.
Centinaia di milioni di persone hanno avviato i loro blog, scambiato
notizie sui social network, condiviso immagini, mescolando le
comunicazioni personali e le informazioni di rilevanza pubblica.
Intanto, migliaia di nuovi giornali, web tv e piattaforme editoriali si
sono presentati al pubblico. Alcune hanno trovato il successo, come
dimostra il Pulitzer di ProPublica, il peso politico di Huffington
Post, l'influenza di TechCrunch. Il pubblico ha adottato queste novità
con interesse crescente. Sicché anche i flussi economici si sono
modificati. Ma le novità non lo restano a lungo. E, dopo le scosse di
assestamento, emergerà un assetto rinnovato della mediasfera. Quale ne
sarà la forma?

Alla ricerca di interpretazioni, si affacciano due visioni
alternative. La prima immagina l'informazione come un mercato: non è la
benevolenza dei lettori che li porta a comprare i giornali, ma il loro
interesse per ciò che offrono. La seconda vede l'informazione come un
ecosistema: e qui, tra l'altro, è la benevolenza dei lettori e del
pubblico attivo verso ciò che i giornali significano a sostenerli. Le
due visioni convivono nella realtà. Ma il mercato si è trasformato.
Perché è cambiata la sorgente del valore: la scarsità non è più
nell'accesso allo spazio limitato dell'informazione, spiazzato dalla
moltiplicazione delle alternative; la nuova scarsità è il tempo e
l'attenzione del pubblico. Il baricentro si sposta dall'offerta alla
domanda. E tocca all'offerta il compito di fare tutto il possibile per
farsi adottare dal pubblico. Il che significa investire in ricerca,
design e sperimentazione, trasformare il business in un processo
innovativo, dimostrare che il servizio di generazione professionale di
informazione può contribure alla valorizzazione dello spazio culturale
comune alla comunità cui si rivolge. Un tempo si sarebbe chiamato
opinione pubblica. Domani forse sarà l'intelligenza collettiva. Oggi è
la costruzione di una prospettiva, contro il disorientamento.

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E dunque ProPublica vince il Pulitzer. Huffington Post conquista un
posto centrale nel dibattito politico americano. I blog TechCrunch,
Gizmodo, Engadget diventano notiziari massimamente influenti nel loro
settore. Iniziative "posteditoriali" esemplari che hanno colto con
successo l'onda anomala della grande trasformazione generata dal
terremoto delle tecnologie dei media digitali, accolte dal pubblico con
tale entusiasmo da dimostrare che ne aveva bisogno. Tanto che nei primi
dieci anni del nuovo millennio, il mondo ha assistito a una fioritura
eccezionale di partecipazione al sistema dell'informazione. Centinaia
di milioni di persone hanno avviato i loro blog, scambiato notizie e
segnalazioni sui loro social network, condiviso foto, video, testi,
mescolando a loro piacimento le comunicazioni personali e le
informazioni di rilevanza pubblica. Talvolta – come nel caso del
terremoto dell'Abruzzo o dell'attentato terroristico di Londra – con
maggiore tempestività dei giornali tradizionali, i quali ne hanno dato
conto aggiungendo a loro volta i servizi di approfondimento, controllo
e verifica. Intanto, migliaia di nuove testate, web tv e piattaforme di
aggregazione editoriale si sono offerte ai navigatori della rete, a
livello locale e internazionale. Difficile giudicare tutto questo come
"crisi" dell'editoria: in realtà è un'esplosione di speranze.

Ci si può chiedere quanto dureranno tutte queste novità. E se i
giornali tradizionali resisteranno. Del resto, se lo chiedeva già nel
1999 Andy Grove, allora capo dell'Intel, che dava ai giornali di carta
ancora soltanto tre anni di vita. Non è un caso che la sua previsione
si sia rivelata sbagliata. L'interpretazione di un fenomeno come questo
non va cercata in una linea inesistente dell'evoluzione tecnologica: va
condotta con lo sguardo ampio, per quanto possibile, dello storico
allenato a interrogarsi sulla dinamica dei fatti, evitando di
sopravalutare le conseguenze di breve periodo ma anche di sottovalutare
le conseguenze di lungo termine. Del resto, le novità non lo restano a
lungo. E le tradizioni non sono eterne.

Anche se ogni periodo storico appare – giustamente – unico a chi lo
vive, non è la prima volta che si assiste a una moltiplicazione di
mezzi di informazione: la Rivoluzione francese, il 1848, il Dopoguerra,
la liberalizzazione delle radio, i primi anni Ottanta delle tv
commerciali. Quasi sempre si è visto che il sistema dei media assorbiva
le novità e riadattava le vecchie soluzioni ai nuovi contesti. I
giornali non sono finiti a causa della radio e la radio non è morta a
causa della tv: semplicemente hanno trovato una nuova collocazione.

Il primo punto da chiarire, in proposito sta nel fatto che
l'adattamento al nuovo avviene in questa fase non nella forma di una
concorrenza diretta e lineare tra "prodotti editoriali", ma seguendo
una dinamica più complessa di competizione-cooperazione. Che cosa fa il
New York Times Magazine, cartaceo, quando pubblica l'inchiesta da
Pulitzer di ProPublica, digitale? E che cosa fa il New York Times
quando pubblica l'inchiesta sull'inquinamento del Pacifico finanziata
da Spot.us? Firmano la loro condanna? No: fanno il loro mestiere. Che
cosa fa la Bbc quando si informa su Twitter del terremoto all'Aquila,
spiazza le agenzie? No: le pungola ma non potrebbe farne a meno. E i
giornali online che accettano di farsi indicizzare da Google News
sbagliano perché si lasciano sottrarre valore o fanno la scelta giusta
perché ottengono in cambio una quota di traffico che altrimenti non
avrebbero? In realtà, la dinamica emergente è simile a quella di un
ecosistema nel quale ogni produttore di informazione coevolve in
relazione a ogni altro. E trova il suo valore se serve all'insieme.

Per adattarsi, l'informazione professionale impara a mutare, a
evolversi: investendo nella sperimentazione. E forse sviluppando una
visione chiara, che ne definisce l'indispensabile servizio alla
società: quello di offrire un'informazione metodologicamente
trasparente, destinata a costruire e presidiare uno spazio culturale e
organizzativo comune alla comunità cui si riferisce. In una società più
stabile, quello spazio si sarebbe chiamato opinione pubblica. Oggi è il
bisogno emergente di difesa contro il disordine mentale del populismo.

  • Paolo |

    Un aspetto fondamentale legato al nuovo assetto dell’informazione nell’era rivoluzione digitale che mi pare importante aggiungere alle tue riflessioni Luca e’ che ora, con l’avvento della blogosfera e la possibilita’ immediata di ogni utente di postare contenuti, di immettere e diffondere informazione, e’ mutata la dinamica stessa della diffusione delle notizie.
    Un tempo era il giornalista, l’addetto al settore, gli informatori di stampa e i canali istituzionali che segnalavano l’accaduto, che provvedevano il materiale essenziale, e i media propaganano l’informazione. Ora questo tramite e’ saltato, non e’ piu’ necessario; l’informazione emerge spontaneamente dagli utenti direttamente coinvolti, partecipi o testimoni, l’accaduto viene raccontato laddove accade; la fonte diretta, piu’ accessibile e spesso meglio informata, e li’ dietro l’angolo digitale.
    Lo spazio di manovra e conquista dei media istituzionali deve dunque spostarsi altrove: muoversi dalla ricerca della notizia e della fonte, alla sua ‘certificazione’, ed eventualmente elaborazione. Infatti ben sappiamo il problema delle rete di oggi: l’eccesso si informazioni, spesso inaffidabili e contrastanti. Tutti propendiamo (oddio… magari non tutti) a stimare forse piu’ affidabile quanto letto su NYT piuttosto che sul blog dello sconosciuto… ed e’ qui che giornali o portali dell’informazione possono giocare la loro carta, sfruttando le risorse che hanno a disposizione: cercare cioe’ di offrire, a differenza del resto della mediasfera, informazioni verificate. Purtoppo invece spesso nella corsa ad arrivar primi, fanno l’esatto opposto, firmando a parer mio la loro condanna.
    Quanto al ‘populismo’ caro Luca, attenzione a definirlo disordine mentale. Certo ormai ha un’accezione negativa, ma cosa sottende essenzialmente… compiacere al popolo? Beh ma non e’ questo forse alla radice del sistema di democrazia indiretta che oggi impera?
    Saluti

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