L'esperimento di Murdoch

La nebbia del "tutto gratis" su internet avvolge i conti dell'industria editoriale e quindi, per il Times di Londra, il web è isolato. Vista con gli occhi dell'antico giornale britannico, oggi proprietà del gruppo News Corp. di Rupert Murdoch, la questione è semplice: i giornali si devono pagare, anche online. Un'idea condivisa da molti editori, ma implementata da pochissimi. Per paura di perdere audience, ovviamente, dunque fatturato pubblicitario.

E in effetti, quando il Times ha deciso di chiudere dietro un biglietto d'ingresso i suoi articoli, consentendo la visione gratuita soltanto della home page del giornale in versione web, i suoi manager si aspettavano di perdere il 90% dei lettori online. Ma di tenere i più fedeli e interessati. Magari anche i più interessanti per gli inserzionisti pubblicitari. Sicché tutti gli osservatori del l'industria editoriale aspettavano con impazienza di conoscere i dati reali, per capitalizzare sul l'esperienza del Times ed eventualmente copiarla.

E i dati sono arrivati. A quattro mesi dal lancio della versione a pagamento, il Times vanta poco più di 105mila lettori paganti per la versione sul web. Divisi tra due offerte: la prima prevede il pagamento di una sterlina per consultare il quotidiano per un giorno; la seconda, offre il giornale sul web e in versione iPad, più altri vantaggi per l'accesso in mobilità, a chi si impegni a pagare due sterline la settimana, dopo un mese di prova a una sterlina. Non si sa quanti abbiano pagato solo una volta e quanti abbiano sottoscritto stabilmente. Di certo, c'è solo che i manager del Times si mostrano soddisfatti: «Questa esperienza dimostra che c'è un vasto pubblico disposto a pagare per il giornalismo di qualità in formato digitale», ha detto al New York Times Rebekah Brooks, amministratrice delegata della filiale europea di News Corp.

Ma è un vero successo? Gli analisti sono divisi sul giudizio. Perché bisogna tener conto del traffico perso e dunque dei minori introiti pubblicitari. In termini di pagine viste, il Times ha perso poco meno del 90%, ed è passato da 21 milioni a 2,7 milioni, come registra Felix Salmon, stimato blogger della Reuters. Invece, in termini di visitatori unici, secondo la Nielsen, il Times ha perso il 42%, arrivando a 1,78 milioni. La discrepanza si spiega: la stragrande maggioranza di quei visitatori unici non va più oltre la prima pagina. È un comportamento comune ai lettori di molti giornali online che di solito si limitano a consultare i titoli, per poi cliccare su un numero molto limitato di articoli. Ma nel caso del Times, evidentemente, il fenomeno si è estremizzato: i visitatori che prima si lasciavano tentare ogni tanto da un articolo, ora, dovendo pagare, resistono meglio alla tentazione.

Nel frattempo, le vendite della versione cartacea del giornale sono diminuite del 15% rispetto all'anno scorso, a 486mila, e probabilmente non sono state sostenute dalla nuova tattica commerciale del Times.
Gli analisti ritengono che il gruppo News Corp potrà però proporre nuove offerte che colleghino in pacchetti unici la possibilità di pagare per il giornale online, per il giornale domenicale di carta e per l'accesso alla tv Sky. Il percorso è chiaramente ancora tutto da esplorare.

Per ora, soltanto il Wall Street Journal e il Financial Times sono riusciti a trarre un chiaro vantaggio dall'offerta a pagamento del giornale sul web. E altri stanno tentando diverse strade intermedie, come il New York Times e il Sole 24 Ore, il cui schema è quello di consentire la lettura gratuita di un numero limitato di articoli al mese, per poi chiedere un pagamento a chi superi quel limite: questo dovrebbe contenere le pedite di traffico per tutti i lettori più casuali e valorizzare maggiormente i lettori fedeli.

Da tener conto anche del fatto che molte di di queste strategie richiedono molto tempo per essere messe in pratica, mentre le tendenze del mercato sono veloci. L'idea del pagamento del Times online è venuta al gruppo di Murdoch in un periodo di vacche magre pubblicitarie. E chissà che non siano costretti a rimpiangerla nel caso che, come pare dai dati previsionali, la spesa pubblicitaria in rete si riprenda in modo sostenuto.

Si tratta di trovare il modo migliore per servire il mercato e migliorare i conti. È chiaro però che l'adattamento all'economia della rete è tutt'ora in corso. E lo resterà probabilmente per molto tempo.

  • Luca De Biase |

    Grazie! il labirinto editoriale non è facile per nessuno… e tanto meno per chi lo sta attraversando… 🙂

  • marco cavicchioli |

    secondo me gli editori dovrebbero pubblicare i contenuti generalisti (quindi quelli a bassa qualità) gratuitamente, in modo da attirare molti lettori, ed invece farsi pagare i contenuti di alta qualità (insomma: quelli che costano di più e che non sono coperti dagli introiti pubblicitari).
    sembra una cosa banale (e forse lo è), ma in fondo chi è più disposto a pagare? chi cerca contenuti di bassa qualità che può trovare tranquillamente gratis sul web? o chi è in cerca di contenuti di alta qualità talmente costosi da produrre che non si riesce comunque a sostenerli con gli introiti pubblicitari?

  • Francesco |

    Aggiungo una notizia appena letta “La BBC chiede scusa a Bob Geldof”
    http://www.ilpost.it/2010/11/04/la-bbc-chiede-scusa-a-bob-geldof/
    Questo è un esempio di giornalismo di qualità, la BBC riconosce il proprio errore (l’errore è sempre possibile ovviamente) e ne da pubblicamente atto. Molto raramente ho visto cose di questo tipo in Italia, sia su carta stampata che televisione.

  • Francesco |

    «Questa esperienza dimostra che c’è un vasto pubblico disposto a pagare per il giornalismo di qualità in formato digitale»
    Direi che il nucleo di tutto il discorso è la parola qualità.
    È possibile, anzi probabile che la gente sia disposta a pagare per avere qualcosa di qualità garantita (in questo caso giornalismo, in altri casi può essere software o qualsiasi altro prodotto), ma devo assolutamente garantire una qualità di ciò che propongo superiore a quello che l’utente può trovare gratuitamente.
    Ma se ciò che viene proposto a pagamento si rivela non essere in alcun modo migliore delle alternative gli utenti si stancheranno presto di pagare.
    A volte è sufficiente un’illusione di qualità e garanzia, come nel caso del software. Il software a pagamento in molti casi non è affatto migliore di quello OpenSource e l’utente non riceve alcuna garanzia sul suo effettivo funzionamento, basta leggere le licenze che accompagnano i software commerciali, ma spesso l’idea che dietro un prodotto ci sia un’azienda riconoscibile fornisce un’illusione di maggior garanzia. Di fatto fornisce solo un obbiettivo preciso contro cui scagliare le proprie maledizioni quando il software in questione decide di cancellarti l’hard disk.
    Lo stesso può avvenire con il giornalismo, se leggo un articolo e ho la certezza che l’autore sia una persona preparata e valida, che verifica i fatti e le fonti che mi “garantisce” la massima qualità possibile di ciò che mi racconta posso essere disposto a pagare per leggere ciò che scrive.
    Di contro, se ciò non avviene, mi conviene fare delle ricerche in rete e magari incrociando più fonti cercare di farmi un’idea più vicina possibile alla realtà dei fatti. Un giornalismo di qualità deve garantirmi come minimo il risparmio di tempo sulla verifica di ciò che leggo.
    Se pago per leggere il Times pretendo che ciò che leggo sia verificato all’origine e devo potermene fidare al 100% almeno per quanto riguarda l’esposizione dei fatti.

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