«Il problema della comunicazione è riprodurre in un punto un messaggio generato in un altro punto. Spesso i messaggi hanno un significato». Rilette in un’epoca di ipertrofia della comunicazione, possono far sorridere le parole di Claude Shannon, autore nel 1948 di «A mathematical theory of communication». Ma Shannon, non era un tipo da far battute. Lavorava ai Bell Labs che quell’anno fecero scalpore con l’invenzione del transistor. E pochi si accorsero del lavoro altrettanto importante di Shannon che aveva 32 anni: pensò l’unità di misura dell’informazione e la chiamò "bit". Da allora, come mostra James Gleick nel suo «The Information» (Fourth Estate), la distinzione tra informazione e significato ha continuato a generare problemi.
Vista come insieme di bit, in effetti, l’informazione è un oggetto della tecnologia. Vista come generazione di conoscenza è il prodotto di un’attività creativa della ricerca umana. La «scienza dell’informazione» ha sempre tenuto distinto il "dato" e il "significato". Ma la fine della distanza tra la cultura tecnologica e la generazione di conoscenza è uno dei temi contemporanei per eccellenza. E la sua possibile soluzione è la cifra del futuro del giornalismo, dell’editoria e dunque della cittadinanza. Anche se implica cambiamenti che richiedono il tempo necessario alle grandi trasformazioni culturali.
L’inserzione della tecnologia dei bit trasportati da internet nel mondo professionale di chi si occupa di informare la cittadinanza su come stanno le cose ha effetti dirompenti per l’industria editoriale. I media analogici, infatti, consentivano agli editori il perfetto controllo della filiera che andava dalla produzione alla fruizione delle notizie: compreso il filtro che selezionava ciò che andava e non andava pubblicato. Internet ha abbattuto quel filtro. E oggi la selezione di ciò che importa trovare è a carico dei fruitori, che la gestiscono con l’aiuto di una quantità di servizi: alcuni sono tecnici, come i motori di ricerca, altri sono umani, come i giornali, e altri ancora sono un po’ tecnici e un po’ umani, come i social network. I motori di ricerca puntano tutto sulla distinzione tra informazione e significato, i giornali non possono che tentare di rispondere contando sul bisogno dei lettori di trovare un significato alle informazioni. Nei social network, invece, i significati emergono dalle reti di persone che si incontrano, si esprimono, si riconoscono e si aggregano usando le piattaforme tecnologiche online.
Chi vede queste dimensioni come alternative e concorrenziali perde un’opportunità per interpretare costruttivamente la trasformazione in atto. Chi riesce a trovare modelli che si pongono in sincronia con le tendenze storiche più importanti può progettare nuovi modi per cogliere le opportunità. Questo è il problema del business editoriale. Un problema appassionante, drammatico, profondamente creativo, cui negli ultimi mesi hanno dedicato pagine importanti alcuni attenti osservatori come Enrico Pedemonte («Morte e resurrezione dei giornali», Garzanti), Michele Mezza («Sono le news, bellezza!», Donzelli), Nicola Bruono e Raffaele Matrolonardo («La scimmia che vinse il Pulitzer», Bruno Mondadori). E c’è anche un lavoro di chi scrive: «Cambiare pagina», Rizzoli.
È chiaro che in un contesto di grande accelerazione della produzione di informazione, resa possibile dalla tecnologia, i mezzi che si concentrano sulla gestione dei dati in base ad algoritmi appaiono avvantaggiati. Ma non hanno interesse a soppiantare gli altri, perché presuppongono l’esistenza di una capacità di interpretazione del significato: altrimenti anche il loro servizio non avrebbe molto valore. Si fa uso di un motore di ricerca solo se si conosce il senso dei dati che questo è in grado di restituire. E questa capacità interpretativa non può essere parte del mesteriere tecnologico: è necessariamente frutto di un’attività umana. Da questo punto di vista, c’è una sorta di simbiosi tra motori informatici e generatori di senso.
D’altra parte, non si vede una fatale opposizione neppure tra giornali e social network: anzi, nella pratica, questi ultimi offrono ai giornali la possibilità di incontrare il pubblico più attivo e probabilmente interessato, mentre consentono a quest’ultimo di contribuire a far emergere le informazioni più rilevanti. Il che di fatto, in qualche modo, avviene: le persone conversano di ciò che ritengono più interessante e spesso trovano il materiale di discussione proprio nei giornali. Non basta. Ma è un modo per porre il problema.
Certo, la concorrenza resta, ed è accesa, sulla raccolta pubblicitaria. Questo impone all’editoria un cambio di passo. L’innovazione dei giornali, oggi, è un adattamento all’ecosistema dell’informazione, nel quale le tecnologie sono nuove ma il senso è quello di sempre. La filiera lineare lascia il posto a un’attività che comprende ricerca, sperimentazione, invenzione. Le professionalità autoriali, grafiche e di programmazione si avvicinano, nella nuova progettazione del servizio. Il pubblico saprà riconoscerne i frutti migliori.