Pezzo uscito su Nòva24 il 6 gennaio 2013
Giusto sessant’anni fa, nel 1953 uscì il primo numero de "La civiltà delle macchine", mitica rivista diretta da Leonardo Sinisgalli. Il primo articolo era di Giuseppe Ungaretti. Il poeta rifletteva intorno alle conseguenze del progresso dell’elettronica sull’immaginazione degli esseri umani e sulla loro capacità di generazione di senso. Un tempo era stato affascinato dallo spirito futurista, ma nell’accelerazione tecnologica del Dopoguerra Ungaretti vedeva l’avvento di macchine che superavano la fantasia degli interpreti: «Quale sforzo dovrà sempre più fare l’uomo per non essere senza amore, senza dolore, senza tolleranza, senza pietà, senza ironia, senza fantasia; ma crudele, con il passato crollato, insensibilmente crudele come la macchina?». Era necessario che il progresso tecnico-scientifico si accompagnasse alla ricerca umanistica.
Intuizione più spesso approvata che applicata. Anche perché, per farla propria, gli interpreti, i critici, i cercatori di senso, dovevano darsi, umilmente, la regola di imparare il linguaggio della tecnica. L’occasione è arrivata, ineludibile, con l’avvento di internet e dei media digitali, che impongono alla ricerca umanistica metodi e pratiche di impatto trasformativo simile a quello che in passato era stato prodotto dalla stampa.
Ne emerge un potente movimento, sintetizzato con energia sperimentale e immaginazione organizzativa nel libro "Digital Humanities", di Anne Burdick, Johanna Drucker, Peter Lunenfeld, Todd Presner e Jeffrey Schnapp. È il progetto di un percorso di ricerca contemporaneo: «Lo spirito umanistico» nell’ambiente digitale «diventa il centro di una ricerca generativa» la cui forza è dimostrata «dall’esplosione di una profonda, ricca, significativa cultura digitale». Una ricerca tollerante, aperta alla diversità, attenta ai valori fondamentali. In fondo, ricorda la risposta in due parole di Ungaretti: «Forza morale». Col punto esclamativo.