Theodore Book e Chris Bronk, ricercatori a Houston nel Texas, hanno pubblicato uno studio che mostra come le pubblicità contenute nelle app su smartphone raccolgano dati sugli utenti. Possono farlo perché in genere gli utenti non leggono i termini e condizioni d’uso oppure, se anche li leggono, sono costretti ad accettarli o a rinunciare a quelle applicazioni. Quali dati raccolgono? Quasi metà sanno dove si trova l’utente e il numero di telefono. Più del 6% possono vedere quello che vede la telecamera. L’1,5% può registrare quello che sente il microfono. Queste ultime funzionalità possono essere particolarmente sorprendenti e paurose, ma solo perché non si riflette su quanto si può sapere di una persona solo collegando la localizzazione con le attività che compie e le sue relazioni con altri utenti. Bastano questi metadati, spiega per esempio una ricerca svolta all’università di Ghent, per scoprire religione, professione, hobby, divertimenti, idee politiche, network sociale, abitudini sentimentali, cluster di relazioni e così via. Molte di queste informazioni sono usate per scopi commerciali. Talvolta finiscono per essere usate in varie forme di controllo sociale o politico. E si forma un dilemma. Mentre le rivelazioni di Edward Snowden hanno reso le persone un po’ più attente alla protezione della privacy, l’emozione suscitata da fatti di cronaca o di terrorismo hanno reso le persone più disponibili a cedere privacy in cambio di sicurezza. Non deve essere per forza così. Il libro di Antonello Soro, presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali si intitola “Liberi e connessi” (Codice) proprio per suggerire che si può coltivare l’obiettivo di vivere in modo pieno la vita in rete e salvaguardare la libertà (vedi la prefazione). Di certo c’è che la rete facilita la sorveglianza più che la privacy e che la raccolta di dati personali concentra potere in poche grandi piattaforme private e pubbliche, lasciando i cittadini in una condizione di asimmetria informativa. La privacy è un obiettivo di libertà. La redistribuzione della conoscenza è un obiettivo di giustizia.
Articolo pubblicato su Nòva il 20 marzo 2016