Lettere sull'innovazione: formazione informatica

Caro Luca, il tema dell’occupazione giovanile, in Italia, va affrontato tenendo conto di due problematiche diverse: la situazione attuale, dove essa è ancora attorno al 40% e quella di prospettiva, che, come ricordavi nella tua risposta alla lettera di Vincenzo Moretti che hai pubblicato il 29 aprile ultimo scorso, vede non pochi analisti prospettare situazioni in cui dal 10% al 40% degli attuali posti di lavoro dovrebbero sparire assorbiti dalle macchine. È evidente che la combinazione dei due fenomeni non può che produrre un crollo della fiducia dei giovani e ciò si sta appunto verificando.
L’appello ad investire in conoscenza, ricerca, cultura ed educazione che tu riprendi alla fine della tua risposta è quindi ovvio. Ma penso che resteranno parole vuote, se non le sostanziamo di qualche proposta specifica e fattibile. E qui invece siamo proprio all’afasia. Eppure temi su cui fare proposte urgenti non mancano. Ti ricordo brevemente quello su cui sto cercando, senza alcun successo, di attirare l’attenzione. L’unico settore qualificato del mercato del lavoro in cui l’offerta supera di gran lunga la domanda è quello dell’Ict (Information and Communication Technology): si stima che i posti offerti dalle imprese e dagli enti supera di un fattore compreso tra 5 e 7 la domanda da parte dei giovani laureati e la forbice si amplierà ulteriormente anche a causa del programma Industria 4.0. Eppure l’università italiana lascia liberi gli accessi ai corsi di laurea che formano soprattutto disoccupati e mette il numero chiuso nel corsi laurea in Informatica e discipline collegate (ad esempio nelle due Università Milanesi). Questa cosa non ha senso e dice molto di più di tante belle parole. Sto cercando da almeno un anno chi si unisca a me nel richiedere un programma straordinario per raddoppiare l’output dei corsi di laurea interessati, lanciando magari corsi che spingano il settore verso una riqualificazione ed una partecipazione attiva all’innovazione nelle imprese e negli enti pubblici, ma finora, nonostante non richiederebbe risorse ingenti (molto meno del Ponte di Messina, ad esempio) ho trovato, di nuovo, solo belle parole. Eppure sarebbe il modo per sfidare la politica, e gli attori sociali ad una politica dell’innovazione fatta di cose concrete. Perché non ne parliamo e non vediamo se tra i tuoi lettori c’è chi ci può dare una mano?
Giorgio De Michelis
Caro De Michelis
è una proposta precisa, razionale, basata sui fatti: che va sostenuta con forza. La Commissione europea dice che per il 2020 mancheranno 500mila tecnici ict in Europa ed Eurostat segnala che nei dieci anni della crisi questo tipo di occupazione è comunque cresciuta del 3% all’anno in media. Da osservare inoltre che mentre tutti i settori diventano sempre più digitali, le capacità informatiche della popolazione attiva europea sono insufficienti nel 37% dei casi. La Commissione ha lanciato un programma chiamato Digital Skills and Jobs Coalition che tra l’altro vuole formare un milione di giovani disoccupati per portarli a saper svolgere lavori digitali attraverso corsi brevi e stage. Le università a loro volta devono agire proattivamente per spingere alla realizzazione di questi programmi con modalità più flessibili di quanto non sia stato possibile in passato. E magari lavorare per attirare l’attenzione verso le professioni tecniche anche delle donne: per adesso solo il 16% dei tecnici informatici in Europa sono donne e il dato è in peggioramento da anni.
L’altra metà del digitale
Ciao Luca sono Caterina Tiazzoldi relativamente nota come donna italiana innovatrice: fra i miei progetti il famoso coworking toolbox uscito su tutti i media del mondo. Ti scrivo qui perché ho visto il tuo post e non riesco a digitare un paragrafo su Twitter. Sono molto friendly con la tecnologia ma allo stesso tempo avendo vissuto in tanti paesi del mondo penso che la tecnologia sia parzialmente “l’oppio dei popoli” : si passano ore a installare software e apps quasi un po’ come dei criceti nella ruota. Spostandomi fra Cina Italia e America è un continuo. Quindi ho praticamente buttato via il telefono e procedo come all’epoca di Cristoforo Colombo. L’Italia dell’innovazione deve essere un’Italia che sa guardare se stessa. Quante volte abbiamo sentito quanto gli altri sono avanti e copiamo modelli che poi si rivelano fallimentari. Quante volte sentiamo dire che a Londra o New York qualcosa c’è già da 5 anni? Insegno da anni in scuole avanzate e molti dei laboratori più fighi del mondo non hanno le apparecchiature molto avanzate dell’industria italiana. Eppure alla tv si parla sempre degli altri e noi sembriamo sfigatoni. Quindi capire spesso in Italia c’è già tutto quello che gli altri scoprono solo ora.
Caterina Tiazzoldi
Rubrica pubblicata sul Sole 24 Ore il 13 maggio 2017