Raccontava un antico abitante di Matera di come alla mattina suo padre si alzasse presto per andare nei campi a lavorare: saliva sul carro trainato da un mulo che conosceva la strada, sicché poteva dormire mentre l’animale lo portava a destinazione. Era un veicolo che si guidava da solo. Quando arrivò l’automobile fu un passo indietro: bisognava stare svegli. Non è detto che la qualità del servizio offerto dalla nuova tecnologia sia migliore. Anzi. Massimo Mantellini, nel suo ultimo splendido libro intitolato “Bassa risoluzione” (Einaudi 2018) ne fa una questione generazionale. L’esempio della musica è chiaro: dal suono caldo e imperfetto del vinile alla fredda precisione del cd, dalla compressione semplificatoria dell’mp3 ai video musicali di YouTube ascoltati con le casse di plastica made in China. E non solo la musica: in molti settori, una tecnologia accessibile e low cost si è sviluppata sulla rete internet, per sostituire tecnologie qualitativamete migliori. Meglio evitare gli applausi incondizionati come pure il sordo brontolio critico. Il low cost va compreso: è adottato perché apre nuove possibilità, come quella di viaggiare in aereo in paesi prima economicamente irraggiungibili. Del resto, questa è la dinamica della “Disruptive innovation” teorizzata da Clayton Christensen. E sposta nelle nicchie per intenditori quello che in precedenza era il prodotto normale, per chi se lo poteva permettere. In quelle nicchie però c’è un valore. E qualcuno lo custodisce. Ne emerge una convivenza dell’imperfezione affascinante ad alto costo e bassa tecnologia, con la standardizzazione forse banalizzante a basso costo e alta tecnologia. Non sempre il nuovo è migliore. Nelle nicchie si conserva la memoria della qualità. Il rischio è la perdita di quella memoria. Perché alla fine custodisce un senso critico e uno stile essenziale anche per l’innovazione. Chi se ne occupa ha una funzione non minore di quella dei giganti che offrono prodotti scalabili. Solo l’insieme ha senso.
Articolo pubblicato su Nòva l’11 febbraio 2018