Lettere sull'innovazione. Un pensiero per Umberto Eco

Gentile direttore,
mentre ci affanniamo a comprendere verso quali traguardi (o quali derive) ci sta portando l’innovazione e a capire come controllare i new media (o come non farci controllare), non posso fare a meno di pensare che Umberto Eco aveva capito tutto e con largo anticipo: i rischi connessi all’eccesso d’informazione, la perdita d’identità all’epoca dei social, le insidie delle fake news, l’importanza del senso critico, i sottili meccanismi del linguaggio degli uomini delle macchine.
Ho avuto il piacere, nel corso della mia attività professionale, di collaborare per lunghi anni a stretto contatto con Eco. Ho imparato a conoscere e apprezzare da vicino il suo lavoro di ricerca rigoroso, appassionato e divertito; la sua curiosità verso il nuovo e l’inedito; la sua generosa abilità comunicativa e la sua straordinaria lungimiranza.
Era il lontano 1964 quando Umberto in “Apocalittici e integrati” rifletteva sulle potenzialità della comunicazione di massa e sull’utilizzo delle nuove tecnologie, opponendo in un ipotetico dialogo due punti di punti di vista estremi: “Se la cultura è un fatto aristocratico, la gelosa coltivazione, assidua e solitaria, di una interiorità che si affina e si oppone alla volgarità della folla […], allora il solo pensiero di una cultura condivisa da tutti, prodotta in modo che si adatti a tutti, e elaborata sulla misura di tutti, è un mostruoso controsenso. La cultura di massa è l’anticultura. Ma siccome nasce nel momento in cui la presenza delle masse nella vita associata diventa il fenomeno più evidente di un contesto storico, la “cultura di massa” non segna una aberrazione transitoria e limitata: diventa il segno di una caduta irrecuperabile, di fronte alla quale l’uomo di cultura (ultimo superstite della preistoria destinato ad estinguersi) non può che dare una estrema testimonianza in termini di Apocalisse. Di contro, la risposta ottimistica dell’integrato. Poiché la televisione, il giornale, la radio, il cinema, il fumetto, il romanzo popolare e il Reader’s Digest mettono ormai i beni culturali a disposizione di tutti, rendendo amabile e leggero l’assorbimento delle nozioni e la ricezione di informazioni, stiamo vivendo in un’epoca di allargamento dell’area culturale in cui finalmente si attua ad ampio livello, col concorso dei migliori, la circolazione di un’arte e una cultura “popolare”.
Ricordo ancora quando nel settembre del 1990, come responsabile dei rapporti con le università e i centri di ricerca della Olivetti, lo andai a trovare nel suo ufficio di Scienze della comunicazione a Bologna e gli presentai il nuovo computer “multimediale” realizzato dal laboratorio Olivetti di Pisa: collegato con un lettore di videodischi, il computer poteva proiettare sullo schermo disegni, fotografie, filmati. Erano le prime forme di ipertesto multimediale, aumentavano gli investimenti per costruire computer sempre più potenti e multimediali, ma nessuno pensava ai contenuti adatti da “metterci dentro”. Eco mi guardò e con entusiasmo mi disse: “Mettiamoci dentro la storia del mondo”. Nacque così l’idea di fare un’opera enciclopedica unica nel suo genere in cui tutti gli strumenti conoscitivi e tutti i “linguaggi” — che oggi chiamiamo multimediali — fossero intrecciati tra loro in un percorso infinito attraverso link che collegavano la storia, la musica, la filosofia, l’arte, la letteratura, la scienza.
Aveva già capito, prima di tutti, che sarebbe arrivato il World Wide Web.
Ne aveva intuito le potenzialità, ma anche il suo limite più grande, la perdita della memoria, tema cui ha dedicato la sua lectio magistralis tenuta in occasione di quello che è stato forse uno dei momenti più significativi del percorso culturale, personale, professionale che ho condiviso con lui: l’incontro con il Segretario generale dell’Onu Ban-Ki-Moon al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite il 21 ottobre del 2013.
E proprio su questa linea di pensiero, entusiastica e critica insieme, in quegli stessi giorni in un albergo di New York, mentre beveva il suo solito Martini, abbiamo costruito insieme il Festival della Comunicazione di Camogli.
A due anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 19 febbraio del 2016, Umberto non ha smesso di illuminarci: l’entusiasmo per la sperimentazione, il gusto per il nuovo, l’ammirazione per la tecnologia, la volontà di conoscere, capire, raccontare, scoprire, inventare, stupire, la capacità di parlare in modo semplice di cose difficili e complesse e di trattare qualsiasi argomento col giusto equilibrio di serietà e ironia.
Danco Singer
Caro Danco
Grazie di aver condiviso questi ricordi. La voce di un maestro resta chiara e forte anche quando è spenta, sviluppando in chi l’ascolta il meglio di sé.
Rubrica pubblicata sul Sole 24 Ore il 17 febbraio 2018