Nato dall’esperienza di un gruppo di giornalisti di Le Monde, Heidi.news, in Svizzera, si annuncia come un nuovo giornale destinato a vivere essenzialmente di sottoscrizioni e senza pubblicità. Intanto, negli Stati Uniti, ProPublica continua a mietere successi – tra i quali diversi Pulizer – con il suo giornalismo di inchiesta finanziato dal mecenatismo e dalla partecipazione del pubblico. E il Guardian è tornato in pareggio con il sostegno dei lettori. Intanto, negli Stati Uniti, Hearken fa consulenza per la trasformazione dei sistemi di informazione, a partire da quelli dei giornali, in modo che superino i limiti del prodotto tradizionale, recuperino la capacità di focalizzarsi sull’interesse del pubblico e imparino a sviluppare nuovi modelli di redditività: il NiemanLab, da Harvard, segue questa esperienza con attenzione e approva. Nel frattempo, New York Times e Washington Post hanno ricominciato ad assumere: il primo è tornato a 1.500 giornalisti, con 4 milioni di abbonati, e il secondo a 825, più 34% da quando è stato acquisito da Jeff Bezos, fondatore di Amazon, con oltre 1,5 milioni di abbonati in digitale. Per riuscire in queste imprese, di fatto, c’è soprattutto bisogno di buon giornalismo come dimostra The Correspondent che ha raccolto 2,5 milioni di dollari in crowdfunding. Insomma, la digitalizzazione non è il futuro: è già avvenuta. E oggi si assiste a una fioritura di forme diverse nel mondo delle notizie. Con un’accelerazione dovuta ai problemi del modello precedente, quello nel quale si era sviluppato Facebook, basato quasi esclusivamente sulla pubblicità. Usando le metafore dell’”ecologia dei media”, il modello maniacalmente pubblicitario si è dimostrato simile a una monocoltura che mostra tutta la sua la fragilità quando subisce un attacco parassitario. Facebook non aveva anticorpi che lo difendessero dall’informazione senza qualità perché il suo modello era concentrato sulla raccolta – con qualunque mezzo – di attenzione da rivendere, targettizzata al millimetro, agli inserzionisti. L’insostenibilità di quel modello era evidente: in un contesto meramente pubblicitario, le piattaforme vincenti – Google e Facebook – avevano assorbito quasi tutto il business, avviando verso una crisi di identità alcuni siti un tempo celebrati, tipo Huffington Post, e convincendo persino BuzzFeed ad adottare il modello delle sottoscrizioni. Oggi più che mai è urgente uscire dalla dipendenza dalla pubblicità che del resto, se arriva la recessione, è destinata a scemare velocemente. «La distopia è ciò che si ottiene quando si accelera verso il futuro senza comprenderne i rischi e senza sviluppare sistemi di verifica e di bilanciamento» scrive Vivek Wadhwa, sensibile osservatore della tecnologia. Così, nella concretezza dell’analisi economica, si fanno strada i concetti dell’ecologia dei media. Questa disciplina si occupa di studiare i media come ambienti, dice il pioniere Neil Postman, e gli ambienti come media, chiosa Lance Strate, autore di “Media Ecology” (Peter Lang 2017): il mondo dei media è un ecosistema nel quale le dinamiche evolutive non sono lineari e le conseguenze delle scelte non sono banali. Certo, l’editoria dell’epoca industriale non c’è più. Ma l’esigenza di informazione di qualità è sempre più attuale. E chi la sa produrre nei modi adatti alla contemporaneità può innovare con successo. Interpretando quello che serve al pubblico.
Articolo pubblicato su Nòva il 6 gennaio 2019