Il venture capital non è per tutti ma in Italia mancava

Il venture capital è necessario, ma non sufficiente. Il sistema economico italiano ha bisogno di innovazione come gli esseri umani hanno bisogno dell’aria. Ma il denaro non basterà. Certo, avendo ottenuto dal governo un impegno tanto importante in favore del venture capital – come si riporta in queste pagine -, aumenta il capitale disponibile e rende più responsabili tutti gli operatori che lo avevano da tempo richiesto: quando, una volta scritti i decreti attuativi, quei soldi ci saranno, dovranno trovare ad aspettarli le idee giuste e le squadre preparate a realizzarle. E sappiamo già che non tutte vanno bene.
L’Italia ha sempre avuto un modo tutto suo di finanziare l’innovazione. In mancanza di capitali, gli imprenditori si sono sempre ingegnati a finanziarsi con il fatturato, mettendo da parte qualcosa e investendolo in innovazione. Questo ha incentivato le aziende capaci di crescere un po’ alla volta, le cui priorità sono rivolte più a mantenere i clienti che a cambiare radicalmente modelli di business, prodotti o tecnologie. Il venture capital serve alle aziende che vedono invece le loro priorità concentrate sulla crescita accelerata, dunque sull’innovazione spinta, quella che se ha successo moltiplica rapidamente il loro valore di mercato.
In effetti, non sembra esistere un venture capital all’italiana. Il suo ruolo è, in Italia come ovunque, quello di creare un mercato per fare incontrare investitori istituzionali, imprenditori e banche d’affari. I venture capital raccolgono capitali, aprono i loro fondi, investono, vendono le partecipazioni, chiudono i fondi dopo dieci anni. Anche la matematica di questo mercato è simile in tutto l’Occidente, perché ovviamente poche innovazioni radicali vanno bene e molte vanno male. Significa che il profitto si fa azzeccando almeno un investimento su dieci che moltiplichi il suo valore per dieci volte alla fine dei dieci anni. E anche così – facendo i conti insieme ad alcuni venture capitalist italiani – il risultato per i manager di un fondo da 100 milioni alla fine dei dieci anni è mediamente di circa 250 mila euro l’anno di profitto, più lo stipendio. In teoria. Quindi non c’è dubbio che le aziende nelle quali questi vogliono investire devono avere un potenziale di crescita molto elevato. Nessuna eccezione.
I responsabili dei fondi saranno dunque molto selettivi nella scelta degli investimenti, molto esigenti nella loro relazione con i team imprenditoriali, molto prudenti con i loro investitori. Dovranno dedicare una buona parte del loro lavoro alle attività di compliance con le regole imposte dalle autorità di controllo dei mercati finanziari. E avranno tempo limitato da dedicare alle aziende. Secondo un articolo classico di Harvard Business Review, un tipico fondo con quattro professionisti che gestiscono dieci investimenti a testa e lavorano 2mila ore all’anno, riesce a dedicare meno di due ore alla settimana a ciascuna azienda nella quale ha investito.
Anche per questo, persino negli Stati Uniti, ci sono aziende che cominciano a rinunciare ai soldi del venture capital, secondo un’inchiesta del New York Times, perché anche in America non tutte le aziende vogliono scalare e diventare giganti. Per gli italiani che ancora devono assaporare le gioie e i dolori del venture capital, in attesa che i capitali disponibili si avvicinino al miliardo atteso per i prossimi anni e crescano ulteriormente poi, c’è da imparare in fretta. Qualcuno continuerà come ora. Ma qualcuno vedrà la possibilità di costruire un’azienda che cresce e diventa dominatrice del mercato globale. Sarebbe un’innovazione per il paese delle aziende che un antico maestro della finanza nostrana definiva “bonsai”.
Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 6 febbraio 2019L