Meno storytelling e più genius loci

Un progetto territoriale di sviluppo è possibile e necessario, anche in un paese reso scettico dal ripetuto passaggio di storyteller più interessati a raccogliere consenso immediato che a produrre risultati. Perché, alla luce dell’esperienza, c’è ormai un criterio che consente di discernere le proposte di sostanza: sono orientate al lungo termine, sono consapevoli della complessità delle dinamiche dello sviluppo, interpretano lo spirito dei tempi.
Come si fa un progetto del genere? C’è un punto di partenza relativamente chiaro: «Se c’è una cosa su cui gli economisti sono d’accordo (…), è che i cambiamenti tecnologici e organizzativi sono la causa principale della crescita economica a lungo termine e della creazione di ricchezza. Gli investimenti nella scienza, nella tecnologia, nelle competenze e nelle nuove forme organizzative di produzione (…) sostengono la produttività e gli aumenti a lungo termine del Pil», scrive Mariana Mazzucato ne “Il valore di tutto” (Laterza 2018).
Ma se si incrocia il tema della crescita con l’obiettivo dello sviluppo territoriale, le cose si complicano. Perché sebbene sia quasi certo che gli investimenti nella conoscenza e nell’educazione producono crescita, non si sa se la produrranno nello stesso posto nel quale sono stati effettuati. Come fa un territorio a diventare un polo di attrazione invece di farsi scappare i talenti? Enrico Moretti, qualche anno fa, nel suo “La nuova geografia del lavoro” (Mondadori 2013), ha descritto alcune precondizioni: la densità del mercato del lavoro, con molti operatori che domandano e offrono le competenze necessarie all’innovazione; l’abbondanza di venture capital che sostiene i progetti imprenditoriali scalabili; la prossimità di persone che fanno ricerca e condividono conoscenza, generando spillover e idee creative. Una massa di innovatori ha una funzione gravitazionale.
Ma tutto questo va visto dinamicamente. Le precondizioni iniziali sono diverse. Il basso costo del lavoro e degli immobili ha forse favorito l’attrattività di Berlino dopo la caduta del Muro. La presenza di competenze straordinarie, di una policy coerente e di capitale di rischio ha favorito Israele. La vicinanza di università di grande importanza è servita a Boston. Le policy per lo sviluppo dell’innovazione hanno funzionato a Vancouver, Amsterdam, Parigi. La qualità delle relazioni sociali deve essere servita a Stoccolma. La presenza di un enorme distretto finanziario ha sostenuto Londra. Ma una volta partiti, gli ecosistemi vincenti hanno saputo evolvere, superando per esempio le difficoltà dovute all’aumento dei costi. È possibile progettare tutto questo? Una risposta positiva si trovava in un libro di qualche anno fa, “The rainforest” di Victor Hwang e Greg Horowitt (Regenwald 2012). Gli autori suggerivano – tra l’altro – di operare una sorta di editing sociale, favorendo l’orientamento all’apprendimento per tutta la vita, il sostegno alla diversità culturale, la celebrazione delle persone che svolgono un ruolo di esempio. Oltre a tutto questo, altri osservano che è necessaria la presenza di aziende affermate che sappiano comprendere il valore di connettersi alle startup, organizzazioni che favoriscano l’open innovation, vita sociale che limiti la corruzione.
Certo, i poli innovativi hanno qualcosa in comune ma poi trovano un’identità. I nuovi ecosistemi avranno tutto quello che c’è negli altri poli e qualcosa di più. Dovranno interpretare lo spirito dei tempi e il genius loci. Dovesse nascere un nuovo distretto dell’innovazione di livello internazionale in italia, dovrebbe avere le radici meno nella aggressiva pratica dello storytelling e più nella realtà umile di chi scrive, ogni giorno, lavorando la storia.
Articolo pubblicato sul Sole il 20 marzo 2019