Ecologia dei media: lo studio dei media come ambienti e degli ambienti come media. Ne ha parlato Lance Strate aprendo giovedì scorso a Toronto il congresso Media Ethics. Strate, autore del libro di riferimento “Media ecology. An approach to understanding the human condition” (Peter Lang 2017) ha ricucito il percorso intellettuale che ha condotto i fondatori dell’ecologia dei media, Marshall McLuhan e Neil Postman, a porre le basi di una nuova cultura del discernimento in riferimento ai media: una cultura che non si limiti ad accettare e subire in maniera passiva e inconsapevole l’evoluzione del sistema mediatico e che serva a distinguere ciò che dai media può emergere di buono per la società. Difficile trovare un argomento di altrettanto pregnante attualità, in un contesto nel quale i media sembrano alimentare comportamenti tutt’altro che desiderabili dal punto di vista civico, non solo per la diffusione incontrastata di notizie poco documentate o chiamente false, ma anche per la divisione della popolazione in ambiti chiusi di tribù valoriali separate, per la progressiva polarizzazione tra chi conosce le dinamiche dei media e chi ne è escluso e non ne sa approfittare, per l’avvento di piattaforme che concentrano il potere e la ricchezza nelle mani – o meglio nei server – dei pochi giganteschi registratori di dati, per la sfida che tutto questo pone ad alcuni principi civici fondamentali, dalla privacy alla concorrenza, dall’equità fiscale all’equità culturale. Sicché Strate ha ricordato le domande che Postman si è posto per organizzare una valutazione delle conseguenze delle strutture mediatiche sulla qualità della convivenza civile: «Un medium contribuisce allo sviluppo del pensiero razionale e dei processi democratici? I nuovi media accrescono l’accesso a informazioni significative? Alimentano o meno il senso morale?»
I media non sono strumenti neutrali che si possono usare bene o male. La loro struttura e il sistema di incentivi che essa implicitamente contiene condizionano lo sviluppo della cultura umana. Non per nulla ci si riferisce al concetto di ecosistema, che è un complesso insieme di relazioni tra elementi connessi direttamente e indirettamente nel quale i fenomeni coevolvono in un percorso tutt’altro che lineare. In questo senso, le domande di Postman implicano una ricerca volta a ottenere la consapevolezza necessaria a progettare i media in modo che sviluppino ciò che più favorisce la convivenza civile: un approccio empirico e razionale che serve al progresso della conoscenza condivisa nella comunità, un rispetto delle specificità dei fatti e delle opinioni che è necessario ai processi democratici, un’equità nell’accesso a informazioni rilevanti e alla deliberazione intorno alle conseguenze delle decisioni collettive in relazione alla loro attitudine a generare conseguenze che facciano bene a tutti e non solo a una parte della popolazione.
La media ecology per adesso sembra orientata a produrre più domande che soluzioni. Ma non è sempre così. Leggendo il libro di Jennifer Rauch, “Slow media” (Oxford University Press 2018) si scopre il legame tra la sostenibilità che l’umanità sta cercando di conquistare nelle sue relazioni con l’ambiente e le forme di sostenibilità culturale e sociale delle quali i media sono parte integrante. Un approccio più attento alla qualità dei media e del tempo che si dedica ai media è necessario per aprire la strada a una nuova ecologia e a una rinnovata ricerca del benessere.
Tutto questo è possibile soltanto ammettendo la convergenza dell’approccio umanistico e di quello tecnico alla conoscenza. I luoghi degli slow media, quelli che ricercano la qualità dell’approccio alla conoscenza, hanno bisogno di rilancio, come spesso avviene nelle biblioteche, negli archivi, nei musei. Gli esempi non mancano. A Modena, il progetto del polo Santagostino, trasforma l’ex ospedale in un centro di propulsione culturale di qualità, fondato sulla convergenza umanistico-tecnica, con centri di ricerca sull’intelligenza artificiale, sul futuro dell’educazione, sulla riqualificazione dell’archivio storico: è guidato da Mauro Felicori, ispirato da Jeffrey Schnapp, fondatore del MetaLab a Harvard, testimone della cultura umanistica-digitale, sostenuto dalla Fondazione Crmo. Il progetto dimostra tra l’altro che ogni città italiana ha le risorse culturali per essere capitale internazionale nella media ecology. L’occasione va colta.
Versione integrale di un articolo pubblicato su Nòva il 30 giugno 2019. Foto