La storia non è la scienza di chi fa ricerca sul passato. È piuttosto la disciplina che studia il tempo. I bagliori dell’attualità si manifestano nel quadro di fenomeni congiunturali e di realtà strutturali che mutano a velocità diverse: che si leggono nel passato, che si vivono nel presente, che durano a lungo nel futuro. E la tradizione non è la ripetizione di ciò che si è sempre fatto, ma una fonte di conoscenza sulla qualità – delle cose e non solo – che vive solo se si contestualizza nella quotidianità tecnologica e sociale contemporanea. È anche per questo che la sapienza dell’artigianato non cessa di affascinare, dal punto di vista pratico e culturale. Questa dimensione dell’economia produttiva – che sconfina, da una parte, nell’arte e, dall’altra, nell’industria ad alto valore aggiunto tipicamente italiana – può diventare una risposta alla domanda di “qualità” che da ogni parte emerge dopo la sbornia di “quantità” che ha investito la società con la prima, massiccia digitalizzazione. Quella capacità di trovare un senso nella produzione – che è tipica dell’artigiano che lavora con la mano, il cuore e la testa, come direbbe uno dei personaggi raccontati da Enzo Moretti, promotore dell’iniziativa culturale chiamata “Lavoro ben fatto” – diventa un elemento essenziale della prospettiva intelligente con la quale si guarda al futuro. Un attestato di apprezzamento per questa prospettiva sembra emergere nelle reazioni del pubblico televisivo, a giudicare dal fatto che Cinzia TH Torrini, regista, ha ottenuto un successo di proporzioni superiori alle più rosee aspettative, con la sua serie dedicata agli artigiani chiamata saggiamente “Pezzi Unici” e che racconta le persone che lavorano in “bottega” nelle loro relazioni complesse con la quotidianità contemporanea.
La ricerca in materia non cessa di ampliarsi: l’intuizione che vi sia, nell’artigianato, una ricchezza inesauribile, ma disponibile soprattutto a chi sappia riconoscerla, è esplorata ne “L’Italia fatta a mano” (Skira 2019), l’originale libro di Davide Rampello, intellettuale dalla storia articolata, passata dalla Triennale a Striscia la Notizia, dal Politecnico di Milano all’Expo di Dubai. Il libro è una raccolta di esperienze, stampe antiche e visioni moderne, sull’Italia del lavoro manuale: quella del paesaggio costruito dalla sedimentazione millenaria del lavoro di generazioni di agricoltori, allevatori, artigiani, artisti, che hanno generato il valore del quale continua ad avvalersi l’industria tipicamene italiana dell’alimentazione, dell’abbigliamento, dell’arredamento, del turismo.
Certo, questa sapienza “fatta a mano” deve sintonizzarsi con la contemporaneità e guardare oltre. Come segnala Richard Sennet, ne “L’uomo artigiano” (Feltrinelli 2008), l’artigiano sa fare ma non sa dire quello che sa fare: questo può bastare in un contesto nel quale prevalgono le relazioni economiche di prossimità e tutti si conoscono da generazioni; non basta invece in un mondo nel quale il prodotto può e deve cercare il suo destino in contesti anche lontani. La tecnologia digitale consente di vendere prodotti italiani in Cina o in India, ma questo non può avvenire se il valore del prodotto artigiano non è riconosciuto. Il che significa che l’artigiano deve imparare a dire ciò che sa fare. E a dirlo in modo digitale, nella lingua giusta, nella contestualizzazione culturale corretta. In questo modo la tradizione è innovazione. O non è.
Articolo pubblicato su Nòva il 29 dicembre 2019