Centinaia di riunioni. Migliaia di pagine di relazioni e rapporti. Consultazioni e forme innovative per la ricerca del consenso. Una strategia ambiziosa e una retorica altisonante per definire la nuova strategia digitale europea, adatta all’epoca dei dati e dell’intelligenza artificiale. Siamo di fronte alla terza versione della famigerata Strategia di Lisbona? Oppure questa volta è diverso?
La Strategia di Lisbona, espressa nel 2000, voleva trasformare l’Europa nell’«economia della conoscenza più competitiva e innovativa del mondo entro il 2010». E tutti sanno che nel 2010 l’obiettivo non era stato raggiunto. Nel pieno della crisi finanziaria, l’Europa trovò quell’anno il tempo di rilanciare le proprie ambizioni, rinominando la propria strategia “Europa 2020”. Anche questa seconda data è arrivata e, nonostante qualche miglioramento, soprattutto industriale, l’Europa è ben lontana dalla leadership nel digitale. Quindi non è del tutto insensato domandarsi perché questa volta la policy europea dovrebbe essere più realistica.
Gli scettici non cessano di ricordare come Stati Uniti e Cina abbiano raggiunto nell’economia dei dati e dell’intelligenza artificiale una dominanza che lascia l’Europa a grande distanza, in termini di investimenti, accumulazione di dati, addestramento di programmi di machine learning, gigantismo delle piattaforme che servono a sfruttare tutto questo. Per gli scettici è impossibile costruire vere e proprie alternative alle piattaforme americane e cinesi nel commercio elettronico, nei motori di ricerca, nei social network, nei servizi alberghieri e di trasporto urbano, e così via. In questa prospettiva, l’Europa è condannata al declino. Un declino accelerato dalla pesantezza normativa che la Commissione impone alle imprese, introducendo regole faticose da seguire e fatalmente destinate a frenare la libera espressione degli spiriti animali degli imprenditori.
Gli ottimisti osservano che questa volta è diverso perché i commissari che si occupano del digitale – per esempio Margrethe Vestager, Mariya Gabriel, Thierry Breton – finalmente capiscono di che cosa parlano ed elaborano policy composte di visioni ambiziose e strumenti concreti. Ma soprattutto questa volta stanno dimostrando una disponibilità a prendere decisioni meno scolasticamente devote alle ricette convenzionali del neoliberismo, più consapevoli del valore del contributo pubblico all’innovazione – sulla scorta del pensiero dell’economista Mariana Mazzucato – e più concentrate a fare gli interessi degli europei. In questo seguono la lezione degli americani, dei cinesi e dei russi. E potrebbero finalmente decidere misure efficaci, come dimostrano le preoccupazioni delle imprese americane che stanno inviando massicciamente i loro lobbisti a Bruxelles per combattere l’introduzione di regole dure contro gli abusi delle posizioni monopolistiche americane, la manipolazione per fini commerciali e politici dei dati degli europei, la capacità delle grandi compagnie digitali a sfruttare le regole europee per non pagare le tasse.
La politica europea, questa volta, potrebbe rivelarsi più avanzata di quella dei concorrenti. Mentre i movimenti degli americani sembrano orientati a difendere le posizioni raggiunte, le scelte degli europei sono pensate per accelerare l’innovazione. L’economia dei dati rischia di rallentare se non migliora in termini di rispetto dei diritti umani come la privacy, se non migliorano gli algoritmi che attualmente discriminano contro le minoranze culturali o i ceti più svantaggiati, accentuando la polarizzazione sociale, e se non superano quei loro difetti che mettono in difficoltà il buon funzionamento delle democrazie. Policy europee che aumentino la responsabilità delle piattaforme sui comportamenti illegali degli utenti, che richiedano interoperabilità dei profili personali nelle piattaforme, che favoriscano la riappropriazione da parte delle persone dei loro dati, che stabiliscano criteri etici per la progettazione dell’intelligenza artificiale, diventano parte integrante di una politica industriale a sua volta dotata di mezzi finanziari sufficienti. Quello che va migliorato in questo scenario è la partecipazione di un insieme di imprese europee che sappiano cogliere queste opportunità per costruire strategie ambiziose, innovative, pragmatiche, globali.
Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 20 febbraio 2020