Di fronte allo scatenamento del virus Covid-19, il numero di messaggi sui social in materia è ovviamente esploso. Ma l’andamento del numero di post non è andato di pari passo con l’andamento del numero di contagi. Mentre le persone contagiate sono aumentate in modo piuttosto continuo, i messaggi si sono moltiplicati all’inizio della crisi, hanno successivamente rallentato e poi sono riesplosi quando la pandemia ha superato i confini della Cina ed è diventata globale. Lo mostra una ricerca realizzata in collaborazione tra Fondazione Bruno Kessler di Trento, Berkman Center di Harvard e Iulm di Milano. Da notare che le borse si sono mosse in modo correlato al numero di messaggi sui social molto più che in corrispondenza dell’andamento della pandemia. Il problema è che il 40% dei messaggi era scritto da bot: erano post generati da software. Ed erano messaggi inaffidabili dal punto di vista della qualità della conoscenza, un vero e proprio inquinamento dell’ecosistema dell’informazione. Non è una questione limitata al coronavirus.
L’ecologia dei media è il vero ambiente nel quale si percepisce di vivere. E se l’ambiente mediatico è inquinato, molto probabilmente, le persone prendono decisioni sbagliate. Ci si può domandare: ci sono paesi con ecosistemi mediatici inquinati di altri? Per saperlo occorrerebbe cercare di vedere se ci sono paesi nei quali la popolazione ha una percezione della realtà particolarmente diversa da ciò che dicono le notizie generate da fonti affidabili e dati controllati.
I dati della qualità della vita dell’Ocse contengono molti spunti da questo punto di vista. In Italia, il numero di assassini ogni 100mila abitanti è uguale a quello che si registra in Spagna, ma in Spagna le persone si sentono sicure se vanno a piedi a casa di notte in una percentuale di più del 30% superiore a quella italiana (82,1 contro 58,4). E in Turchia, dove i morti per assassinio sono il doppio di quelli italiani, la percezione di sicurezza è quasi uguale a quella degli italiani. Insomma: è possibile che una campagna di informazione basata sulle televisioni e ogni altro mezzo orientata a far credere che in Italia la vita quotidiana sia insicura è risultata convincente, nonostante i dati di fatto. Non c’è dubbio che qualche parte politica trae giovamento da questa circostanza. E potrebbe non essere estranea alla costruzione di quella percezione sbagliata. Del resto, come mostrano i dati di Ipsos, gli italiani sono convinti che il 31% delle persone residenti in Italia sia straniero, mentre il dato reale è il 9%: anche questa falsa percezione è probabilmente frutto di una campagna di disinformazione massiccia e pluriennale, con conseguenze di scelte politiche piuttosto rilevanti.
Tutto questo non è certo frutto delle caratteristiche dei media digitali. È frutto delle attività di chi sfrutta quelle caratteristiche per fare propaganda. Come avviene l’inquinamento? Il meccanismo, in sintesi, parte dal fatto che odio, disinformazione, ignoranza sono forme di debolezza. Le organizzazioni che vogliono sviluppare forme di propaganda e manipolazione della realtà possono individuare capillarmente le persone più vulnerabili, proporre le loro idee distruttive e registrare le reazioni: se gli argomenti di un post basato su informazioni inaffidabili prendono piede, allora entrano in campo i bot che automaticamente rilanciano e commentano in modo da diffondere i post originari e moltiplicare le probabilità di farli vedere. Se in questo modo di ottiene attenzione o spazio nei media tradizionali, allora è fatta: il messaggio diventa virale. Insomma, la fabbrica del falso è lo sfruttamento della debolezza.
A questo punto vale la pena di comprendere che in una rete, ogni decisione deve tentare di misurare il suo impatto. E se la decisione riguarda l’ecosistema dei media, deve tener conto che l’impatto si misura non in modo lineare ma accettando la complessità. Le strategie distruttive non possono prevalere se un’alfabetizzazione digitale spiega come i manipolatori si arricchiscano di soldi e di potere sfruttando le debolezze altrui. Ma la bonifica dell’ecosistema dell’informazione sarà lunga.
Articolo pubblicato su Nòva il 15 marzo 2020
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