La task force per l’utilizzo dei dati contro l’emergenza Covid-19 voluta dai ministeri dell’Innovazione e della Salute è al lavoro, ufficialmente dal 31 marzo. Nei fatti anche da prima. Oltre settanta studiosi ed esperti sono chiamati a studiare per il governo le innovazioni che possono servire a elaborare policy basate sull’evidenza empirica per modellare meglio le misure che riguardano il contenimento dell’epidemia, l’adeguamento del sistema sanitario, la ripartenza del sistema produttivo, la qualità della vita dei cittadini: un gruppo interdisciplinare che deve servire a gestire l’emergenza e a guardare oltre. Un’impresa di importanza enorme. Non per niente ci sono volute settimane per mettere in piedi la task force: le forze politiche avevano ben chiaro che stavano creando un nodo di potere significativo. E in questi giorni tentano di costruire anche un tavolo “politico”. Al centro di tutto c’è la preparazione della ormai possibile “fase due”: dopo la clausura generalizzata e generica, si deve avviare un percorso per riattivare la vita nel paese, senza disperdere i risultati ottenuti nell’attuale “fase uno”.
La prima questione da affrontare è varare un sistema più evoluto di contenimento dell’epidemia. Corea del Sud, Singapore, Germania hanno ottenuto risultati importanti sulla base di sistemi fondati su molti dati e molti test. In questo ambito si progetta anche il “contact tracing”. Johannes Abeler, Matthias Baecker e Ulf Buermeyer so spiegano su Netzpolitik: «i modelli matematici mostrano che se si fanno moltissimi test non solo ai sintomatici e si tracciano i loro contatti si può contenere rapidamente la malattia». Ma per monitorare i contatti in fretta occorre il digitale. La task force sta analizzando le soluzioni proposte al governo italiano, in relazione a considerazioni tecniche e di privacy.
Come funzionerà? La tecnologia definitiva non è ancora decisa. Si sa che i cittadini saranno invitati a scaricare un’app sullo smartphone che rileverà con il bluetooth gli incontri ravvicinati con altri telefoni e li registrerà. All’app scaricata sugli smartphone sarà assegnato un codice univoco non collegato al nome del possessore del telefono. Un server centrale registrerà gli incontri tra questi “pseudonimi” digitali. Quando un medico vedrà una persona malata dovrà segnalare il numero della app al server centrale e distruggere immediatamente l’informazione che connette il numero alla persona. Il server in cloud avvertirà i potenziali contagiati ed potrà far partire una procedura di prioritizzazione delle analisi per questi soggetti.
Tecnicamente i sistemi presi in considerazione sono volontari e dunque rischiano di non essere adottati da un numero sufficiente di persone. Inoltre non funzionano quando si incontrano due iPhone, il cui sistema operativo non lascia lavorare il bluetooth in background. Infine, si segnalano potenziali vulnerabilità in certe app che potrebbero mettere a rischio la cybersecurity. Del resto, non è detto che siano dati facili da gestire: la quantità di dati aumenta esponenzialmente con il numero di giorni di registrazione, ricorda di Enrico Nardelli, informatico all’università di Roma Tor Vergata, sul blog del laboratorio Link&Think.
Sulla valutazione in materia di privacy, peraltro, c’è molta attenzione. Il presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, riferirà oggi alla Commissione Trasporti della Camera. Nella task force è presente per il Garante Giuseppe Busia. Da un sondaggio Swg due italiani su tre hanno risposto affemativamente a un sondaggio campionario di fine marzo nel quale si chiedeva: «Lei sarebbe d’accordo che lo Stato possa controllare gli spostamenti dei cittadini attraverso i cellulari anche senza il loro consenso, per individuare le persone entrate in contatto con i soggetti infetti?». Quello che sta facendo la task force è – saggiamente – molto più garantista di quanto sembrino desiderare gli italiani.
In ogni caso, non basta. Se non si fanno tamponi e test sierologici in grande quantità rischia di essere uno sforzo inutile. Ci saranno incentivi all’adozione della app. Ma non troppo cogenti, perché l’adozione deve essere consapevole. Gli utenti devono collaborare. Con queste limitazioni e senza poter accedere ai dati di localizzazione dell’utente, men che meno al nome dell’utente, questi sistemi servono, nella fase attuale, a moltiplicare l’effetto informativo di un test a una rete di persone. Ma potrebbero essere anche molto utili per avviare la “fase due”.
Di fatto, la fase due deve essere basata su una forma intelligente, non generica, di contenimento. Il sistema dei controlli pubblici dovrebbe acquisire la capacità di riconoscere le aree e le persone che possono tornare alle loro attività e quali, invece, sono le zone da mantenere sotto controllo e i cittadini che devono restare segregati perché potenzialmente contagiosi. Intelligenza artificiale e big data e rilevazioni campionarie serviranno a sviluppare modelli evolutivi per prevedere i fenomeni e limitare i danni dei comportamenti più rischioso, come i viaggi e gli incontri ravvicinati, le inefficienze e contaminazioni dei singoli ospedali. In una fase tre, come sottolinea Antonio Nicita, economista dell’Agcom, si potranno usare i dati e il monitoraggio per consentire il funzionamento di ristoranti, treni, aerei, ai quali toccherà per un certo tempo funzionare con occupazione dello spazio ridotta. E probabilmente rimborsi pubblici. Di certo, questi studi sono essenziali: fino all’arrivo del vaccino si dovrà trovare il modo di convivere in modo più intelligente con il virus.
Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 7 aprile 2020