Inevitabilmente, i commenti sul Recovery Fund si sono spostati dall’ottimismo riferito alla disponibilità di una quantità di risorse per policy innovative che non si era vista negli ultimi trent’anni alla preoccupazione che alla fine quei soldi non siano abbastanza. La soluzione è relativamente lineare, anche se non facile: quei soldi, tanti o pochi che siano, devono creare le condizioni per attrarne altri. Il fondo congiunturale può essere indirizzato ad alimentare una fonte strutturale di risorse?
In effetti, per accedere al Fund anche l’Italia dovrà progettare innovazione coerente con la visione definita a livello europeo, che è articolata intorno all’obiettivo di migliorare nello stesso tempo la sostenibilità, l’equità, la produttività e la stabilità macroeconomica delle società europee. La sua novità, rispetto ai poco ambiziosi decenni precedenti, è proprio nella convinzione che si possa dare una direzione all’innovazione e pensarla come la via per migliorare la qualità dell’ambiente, combattere l’ingiustizia sociale, qualificare il valore della cultura e nello stesso tempo generare ricchezza e stabilità. Tutta la manovra è pensata per rispondere alla crisi immediata pensando alle conseguenze di lungo termine. Per l’Italia – che ovviamente ha contribuito a questa visione – è di grande aiuto avere questo punto di riferimento strategico. E quindi si tratta di investire nell’innovazione per rispondere alle difficoltà del momento e costruire qualità per il futuro in modo da generare ulteriori risorse per far proseguire il ciclo innovativo.
Le idee, da questo punto di vista, non mancano. Qui se ne possono accennare solo alcune. Ma solo per farne emergere altre. VcHub, un’associazione di venture capitalist, tra le altre sue proposte suggerisce di aumentare la capacità di attrarre finanziamenti riformando il “technology transfer”, che in effetti è finora una delle questioni più complesse da risolvere nella relazione tra ricerca e impresa. In uno studio di VcHub sul settore delle “life sciences” si legge che aumentando i vantaggi per le università connessi allo svolgimento di questa attività, investendo meglio e di più per ottenere finanziamenti europei per la ricerca, incentivando il contributo dell’università alla ricerca, si creerebbero condizioni favorevoli alla moltiplicazione strutturale dei finanziamenti per l’innovazione nel settore. E probabilmente anche per altri settori.
Un altro modo per attrarre denaro è quello di favorire l’investimento straniero, nelle startup italiane e nelle strutture abilitanti per l’innovazione in Italia: l’entrata in gioco del nuovo Fondo Nazionale per l’Innovazione è un’opportunità in tal senso perché riduce la dispersione degli interlocutori che i grandi fondi internazionali devono cercare per lavorare in Italia. Le startup italiane costano meno di quelle di altri paesi e hanno spesso pari qualità. C’è un mercato che ha appena cominciato a emergere.
Infine, si può recuperare all’innovazione una parte della spesa pubblica italiana, gigantesca, utilizzando di più le forme dei procurement strategico, como lo chiama Alfonso Fuggetta nel suo ultimo libro “Il paese innovatore” (Egea 2020). Indirizzando una parte della spesa pubblica al finanziamento dell’innovazione che risolve problemi invece che al semplice acquisto di beni e servizi, la quantità di miliardi destinati a esplorare strade nuove per raggiungere gli obiettivi di qualità del paese aumenta. E forse si stabilizza oltre i limiti del Recovery Fund.
Articolo pubblicato su Nòva il 18 ottobre 2020