La strada che l'Italia ha davanti

Ogni programma per l’innovazione ha bisogno di una visione, di persone che la mettano in pratica e di soldi per finanziarla. In quest’ordine di importanza, attualmente. Perché i soldi del Recovery Fund sono la variabile dipendente: ci possono essere se l’Italia riesce a esprimere una visione coerente con quella decisa a livello europeo e a mettere in campo le persone giuste. Le persone che fanno innovazione in Italia, del resto, non mancano: una comunità non certo maggioritaria ma fortissima che nonostante ogni difficoltà burocratica, finanziaria, culturale, ha registrato gli ottimi risultati che si deducono dai dati sulle esportazioni, dalla produttività dei ricercatori, dalla qualità manifatturiera del paese, forse persino dal numero di startup, e così via. Sicché, il problema principale è la visione. La buona notizia è che esiste la concreta possibilità di attuarla. La cattiva notizia è che occorre averla.
È proprio da questo punto di vista che l’Europa del 2020 può aiutare. La visione non è un modo per dire come si spendono i soldi. È un modo per articolare che tipo di paese si vuole costruire. La visione è una narrazione comprensibile che non banalizza ma semplifica la lettura di una realtà complessa e offre una prospettiva di miglioramento concreto. Come dimostra il premio Nobel Robert Shiller in “Economia e narrazioni” (FrancoAngeli 2020, versione originale 2019), la visione serve a mettere in fila i pensieri in modo che si comprendano le conseguenze delle azioni. L’opportunità politica attuale è fuori dall’ordinario. Nessuno avrebbe voluto vedere il motivo per cui si è presentata. Ma c’è.
Per recuperare una traiettoria di sviluppo, l’Europa ha intrapreso una strada nuova e dedicato ingenti risorse a una visione: cercare la resilienza più che l’efficienza, avviare un modello di sviluppo orientato a sostenibilità, equità, produttività, stabilità macroeconomica. Per un governo come quello italiano è un cambio di paradigma: significa imparare a fare una policy di sviluppo, dopo aver lavorato per decenni alla microcontabilità necessaria a stare dentro ai vincoli di bilancio.
In queste condizioni, è facile commettere l’errore di pensare che la novità stia nel fatto che i vincoli di bilancio non ci siano più. Come si sa ci sono circa 65 miliardi a fondo perduto nel Recovery Fund: gli altri miliardi assegnati all’Italia, se saranno presi, andranno restituiti. In realtà, è meglio avviare la progettazione necessaria a interpretare bene le sacrosante linee guida che, come europei, anche gli italiani hanno scritto: linee intese a generare ricchezza perseguendo una politica per la giustizia ambientale e sociale. Fare bene facendo il bene.
Può darsi che questa impostazione sia confortante. Ma per applicarla occorre la stessa intensità di innovazione che si vuole ottenere. E decidere che cosa si fa e che cosa non si fa. Un criterio per spendere bene il denaro europeo è quello di farlo fruttare, investendo dove l’Italia è capace di generare altro denaro e dove è talmente indietro da perderne troppo. L’Italia è una potenza europea nell’economia circolare, come dimostrano gli studi di Symbola, ed è scarsa nell’economia digitale, come registra il Digital Economy and Society Index. L’Italia possiede eccellenze nell’educazione e nella sanità ma ha ridotto le risorse dedicate all’insieme del sistema educativo e sanitario e ora deve ricompattare il sistema, perché tra l’altro questi sono i settori che servono davvero a combattere la povertà e la disparità di genere nell’occupazione, come osserva l’economista premio Nobel Esther Duflo. L’Italia esporta e risparmia, ma investe poco nella finanza per le startup, nell’introduzione dei giovani nel lavoro, nelle piattaforme abilitanti. L’Italia è una meravigliosa rete di città e borghi di valore ma lascia che l’attività si concentri sulle sue peraltro piccole metropoli senza investire abbastanza nelle infrastrutture che le connettono all’insieme del territorio.
C’è da dire che le “Linee guida per la definizione del piano nazionale di ripresa e resilienza” presentate dal governo italiano a metà settembre erano scritte bene, perché non solo si richiamavano alla lettera delle indicazioni della Commissione, ma le interpretavano nello spirito, con missioni prioritarie relativamente chiare e obiettivi misurabili, accompagnate dalla previsione di riforme strutturali che non richiedono soldi ma intelligenza. Inoltre, quanto detto dalla ministra dell’innovazione Paola Pisano al Senato nei giorni scorsi è un compendio di giuste proposte. C’è da rafforzare il piano Transizione 4.0 impostato dal Ministero dello Sviluppo e basato sul credito di imposta per investimenti in beni strumentali, formazione, ricerca, innovazione e design. Ma la visione va allargata per concentrare altre risorse sulla modernizzazione: attrarre capitali esteri verso le startup, i centri di ricerca e i grandi progetti italiani; indirizzare una parte della spesa pubblica esistente verso l’innovazione con maggiore ricorso a forme di procurement strategico; chiarire la roadmap delle infrastrutture digitali. Una visione per il lungo termine non spende fondi congiunturali ma attrae risorse strutturali.
Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 20 ottobre 2020