Da un articolo uscito su Nòva il 28 febbraio 2021 e su 24+ intitolato: “Tecnologie sanitarie e privacy: fragile equilibrio. Se manca non c’è progresso” – Le difficoltà di Ibm con Watson Health non dipendono dalla scarsità di dati sui pazienti. La protezione dei dati personali non è un limite al business
Ibm è sul punto di abbandonare Watson Health, scrive il Wall Street Journal. L’azienda americana ha investito negli ultimi sei anni alcuni miliardi di dollari nella costruzione di un’unità di business che doveva rivoluzionare il settore della sanità con l’introduzione di soluzioni basate sull’intelligenza artificiale, ma non ne ha finora mai tratto profitto. Le mammografie aiutate dal deep learning, le comunicazioni tra pazienti e medici mediate da chatbot e risponditori automatici intelligenti restano possibili. Il fatturato che generano è di circa un miliardo di dollari. E probabilmente verranno portate avanti con partnership nuove. Recentemente Ibm aveva anche avviato una collaborazione con Salesforce per sviluppare soluzioni adatte a mitigare i rischi da Covid per le aziende che riaprono e vogliono tenere sotto controllo il contagio. Sta di fatto che Watson Health ha sempre generato perdite. Anche per le difficoltà di scalare, dovute secondo alcuni osservatori alla scarsa disponibilità di dati sui pazienti legata ai limiti posti dalle normative a tutela della privacy.
Ma è giusto considerare il diritto alla protezione dei dati personali in contraddizione con il progresso tecnologico? Oppure non si dovrebbe semplicemente ammettere che tecnologie che non rispettano i diritti umani non generano alcun progresso?
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