Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore l’11 novembre 2022
Dalla fine dello scorso agosto, il mondo sa che cos’è un museo. Ne è soddisfatta Lauran Bonilla-Merchav, storica dell’arte costaricana, copresidente del comitato per la definizione del concetto di museo all’International Council of Museums (Icom). Dopo sette anni di discussioni, polemiche, battaglie intellettuali, la sua organizzazione ha approvato, appunto, la nuova definizione di museo che sostituisce quella che era stata decisa negli anni Settanta. Le conseguenze sono culturali, economiche e politiche. L’Unesco usa la definizione dell’Icom per le sue attività di sviluppo della cultura. Molti governi adottano quella definizione per stabilire quali sono le istituzioni che meritano le agevolazioni fiscali e il sostegno economico che serve ai musei.
Un cambiamento era necessario. La grande trasformazione sociale che si sta sviluppando nel contesto dei media digitali ha travolto un’infinità di abitudini, ha creato nuove dinamiche economiche, ha sconvolto vecchi sistemi di potere, ha messo in discussione le autorità culturali tradizionali. Aprendo la strada a meravigliose innovazioni e a grandi banalizzazioni. Per i musei, e non solo per loro, è l’occasione per decidere il proprio destino. Altrimenti sarà la storia a decidere per loro. Inseguire una tendenza mediatica che li mette in un angolo del mercato dell’attenzione oppure cavalcare le esigenze emergenti dopo decenni di digitalizzazione senza qualità? Non per niente serve una definizione: l’identità del museo è il primo passo per riconquistare un ruolo propulsivo.
Già. Che cos’è un museo? È più facile riconoscerne uno in pratica che spiegarne il concetto in teoria. Di certo, l’identità di questa istituzione culturale non può più essere quella di mezzo secolo fa. Allora si parlava soprattutto dell’edificio e di ciò che conteneva. Oggi si punta alla funzione sociale. Ed ecco dunque la nuova definizione: «Un museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro al servizio della società che ricerca, raccoglie, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano in modo etico, professionale e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il divertimento, la riflessione e la condivisione delle conoscenze».
Tra le molte novità, l’idea di “esperienza” è forse la discriminante essenziale. Il tema è antico. Proprio mentre a Berlino si costruiva l’Altes Museum, Friedrich Hegel si cimentava in una meditazione sulla “morte dell’arte” che avviene quando l’arte entra nel museo. Spiega Stefano Moriggi, epistemologo della formazione: «Quando l’arte entra nei musei, da rappresentazione sensibile del vero, diventa un oggetto di giudizio intellettuale. Avviene un passaggio: dal “fare esperienza dell’arte” come soggetti, al “fare conoscenza dell’arte” come è stata pensata da altri». Ora dunque il museo deve trasformarsi in modo da condurre il pubblico all’esperienza. «E il digitale, o meglio una cultura digitale diffusa e partecipata, sarebbe di grande aiuto».
Significa evidentemente ripensare il rapporto con il pubblico. Antonio Calabrò, presidente della rete Museimpresa, avverte che occorre trovare un equilibrio: «I musei non possono più semplicemente imporre i loro contenuti, ma non devono nemmeno inseguire i gusti immediati del pubblico. Il loro è un compito di leadership culturale». La rete digitale è una sfida e un’opportunità. La rete è un mezzo per la comunicazione la cui matrice non è la trasmissione di sapere ma la ricerca: è possibile pensarla per la costruzione di musei che non cataloghino ma alimentino l’esperienza. Giovanna Melandri, presidente del Maxxi, sta sviluppando un’idea di museo che diventa laboratorio, che testimonia il cambiamento verso la sostenibilità, che alimenta le opportunità per chi contribuisce all’innovazione: mutazioni culturali che sono il contesto necessario per l’esplorazione artistica contemporanea. Tanto che per Filippo Demma, direttore del Parco Archeologico di Sibari, «il museo non è un contenitore di passato ma un utensile per fare cultura». Intanto, al Museo della Scienza di Milano, il rapporto con il digitale si fa sempre più intenso e lo stesso metaverso diventa strumento per nuove esperienze formative.
A fare la differenza, insomma, non è l’uso degli strumenti più moderni per trovare l’attenzione del pubblico, ma un pensiero strategico del ruolo del museo nella comunità contemporanea. «I musei di comunità lo esemplificano» dice Pier Cesare Rivoltella, scienziato della formazione alla Cattolica di Milano: «Nel nostro tempo, servono a coinvolgere le persone nella scelta dei materiali da presentare per le esperienze culturali. Mentre non sono necessariamente definiti dalle mura del museo: anzi, diffondono il loro messaggio in molti contesti, dai centri commerciali alle piazze delle città». La definizione dell’Icom è in effetti già una realtà in molti casi. E non solo superando i limiti dello spazio convenzionale del museo, ma andando dritti all’esperienza che, essa stessa può essere considerata un bene comune: «Il museo può essere una tecnologia di comunità».
Il che aiuta anche a ricollocare il problema che per qualche decennio ha attanagliato i musei di mezzo mondo: nel contesto culturale del neoliberismo si è assistito a un’ipertrofia della questione del modello di business dei musei. In quel contesto, il problema era aumentare le entrate dei musei perché potessero dimostrare di essere efficienti e competitivi, meritando le risorse che attraevano. Ne conseguiva la tentazione di privilegiare la monetizzazione del patrimonio rispetto alla ricerca di un ruolo attivo nell’evoluzione culturale. Oggi però quell’approccio appare superato dagli eventi e la priorità è valorizzare la competenza museale nel quadro delle necessità di un’economia e una società che si trasformano. La ricerca dei musei più avanzati è concentrata sull’accompagnare le loro comunità nel processo di cambiamento epocale: sono consapevoli di poter giocare un ruolo essenziale nel processo di formazione che cessa di essere limitato all’educazione dei giovani e diventa un’attività che gli umani devono svolgere per tutta la vita, allo scopo di prepararsi al cambiamento costante che incontreranno nei loro contesti lavorativi e nella convivenza civile.
La transizione culturale è il sottotesto delle altre più famose transizioni alle quali si è dedicata tanta attenzione negli ultimi anni. La metamorfosi ecologica, sociale e digitale della condizione di vita degli umani sul pianeta avviene solo attraverso una trasformazione del modo di pensare, si può realizzare solo preparando le mentalità collettive al cambiamento continuo del quale gli umani sono destinati a fare esperienza in questo XXI secolo. Ma la transizione culturale avviene per il grande lavorio degli umani che si preparano al futuro, sui binari sui quali corre la comunicazione: i media. Una vera e propria ecologia dei media è l’ambiente nel quale evolvono le dinamiche culturali e dal quale emergono i cambiamenti di mentalità che servono a tutte le transizioni. In questo contesto, i musei emergono come media identitariamente incentivati a cercare di contribuire alla qualità della conoscenza. I musei, come i teatri e le biblioteche, diventano nodi di nuove piattaforme che ridisegnano l’ecologia dei saperi e delle relazioni. Ce n’è bisogno.
Foto: “File:Villa Borghese – Fontane Oscure e Galleria Nazionale Arte moderna 01216-7.JPG” by Lalupa is licensed under CC BY-SA 3.0.