Cloud nazionale, tecnologia americana ed equivoci italiani

Le considerazioni contenute in questo post sono ispirate da un dibattito che si è sviluppato in questi giorni intorno all’architettura dell’informatica pubblica: deve essere centralizzato o federale?


Il sottosegretario per l’innovazione, Alessio Butti, ha rilanciato la discussione sul ruolo delle società informatiche regionali o provinciali (in house) nel quadro del Polo Strategico Nazionale (PSN), la cloud nazionale. Sostiene che valorizzarle significhi valorizzare le competenze informatiche italiane. La struttura della cloud nazionale non prevede un loro ruolo nella costruzione dell’infrastruttura principale. Ma cambiare in corsa un progetto già estremamente complesso per inserire in qualche modo anche un gran numero di nuovi soggetti appare una ricetta per far rallentare o addirittura deragliare tutto.

Che cosa succederà adesso, dunque?

Il progetto da circa 900 miliardi è stato affidato a una cordata di aziende italiane con Telecom Italia, Leonardo, Cdp e Sogei, che useranno tecnologie infrastrutturali di Google, Oracle, Microsoft. Non tutti apprezzano il fatto che questi fornitori siano americani, in un progetto che dovrebbe essere orientato alla cosiddetta “sovranità” digitale. Anche se nessuno si domanda come tecnicamente potrebbero essere sostituite allo stesso livello di efficienza.

L’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale si occuperà di garantire che quelle tecnologie siano sicure, almeno per i dati strategici (circa il 20% del totale). Tutte le amministrazioni pubbliche, le ASL, e le altre entità che dovranno usare il PSN cominceranno a trasferire le loro attività informatiche essenziali nella nuova cloud pubblica. La sovranità dei dati è destinata a essere garantita dalla localizzazione in Italia dei datacenter e dalla relativa separazione della cloud del PSN dal resto delle infrastrutture cloud delle aziende americane alle cui tecnologie si affidano i consorziati. Qualunque decisione di tale portata strategica può suscitare dubbi. Può forse essere di conforto notare che processi analoghi sono stati avviati anche in Francia e Germania e il risultato è simile, con il ricorso alle tecnologie americane per le infrastrutture cloud.

Ma in pratica, quale ruolo potrebbero svolgere le aziende in house nella costruzione della cloud nazionale? E perché non hanno partecipato alla gara per la partnership con la quale si faceva il PSN? In effetti, qualcuno in quelle aziende ci ha pensato, ma alla fine non lo ha fatto. Ciononostante, le in house non hanno mai cessato di far notare che si aspettavano di essere chiamate a partecipare al progetto. Affermano di avere competenze, tecnologie, esperienza del settore pubblico, che non vanno sprecate. E hanno ragione.

Ma è possibile valorizzarle senza mandare in confusione il progetto? La valutazione finale sarà politica o tecnica? Se sarà politica, si troverà probabilmente il modo di affidare alle in house qualche parte a caso del progetto – e del fatturato – ma probabilmente non smantellando l’assetto assunto dalla cloud nazionale attualmente. Se sarà anche tecnica, si cercherà di progettare un’architettura più ordinata e funzionale. Magari distinguendo i ruoli. Forse, si osserverà che difficilmente le in house potrebbero sostituire le tecnologie americane per le infrastrutture cloud, ma in effetti potrebbero gareggiare per le applicazioni specifiche che servono alle varie amministrazioni. Forse le in house potrebbero candidarsi a farsi finanziare lo sviluppo del migliore software possibile per far funzionare le varie attività della pubblica amministrazione. E magari fare consulenza alle amministrazioni nel processo di trasferimento dei loro sistemi verso la cloud.

Forse, qualcuno dirà che i datacenter delle in house potrebbero servire almeno per i dati ordinari e non strategici. Ma non sono sicuro che possa essere una soluzione funzionale a regime. Meglio forse pensare alle in house come competenti integratori di sistema per il settore pubblico e sviluppatori di applicazioni molto avanzate per la pubblica amministrazione. In fondo le infrastrutture godono della quantità di investimenti che servono a costruirle, ma per fare funzionare le pubbliche amministrazioni le infrastrutture non bastano. Occorrono anche l’esperienza e le nuove idee: se le in house le hanno potrebbero aggiungere direttamente valore alla nuova architettura dell’informatica di stato: dall’uso originale dell’open source al ricorso a soluzioni con intelligenza artificiale. Oppure potrebbero partecipare al finanziamento e alla crescita delle start up che hanno buone proposte da fare. C’è talmente tanto da fare che non si vede perché non tentare di iniziare un percorso per il quale le in house diventano parte dell’ecosistema dell’innovazione: la sanità del futuro, l’educazione del futuro, la gestione del territorio del futuro, hanno bisogno di applicazioni fatte da aziende che conoscano da vicino la realtà di queste funzioni pubbliche.

Insomma, nell’informatica tutti lavorano su computer, chip e software di base che sono prodotti prevalentemente fuori dall’Europa, ma i progetti non si bloccano per questo. Invece è assolutamente necessario avviare con forza una politica industriale che rilanci l’informatica europea, in modo realistico e visionario. Una politica che l’Europa nel suo insieme sta tentando ancora timidamente. Non è facile. Occorre un fine senso strategico, anche perché passare immediatamente a tecnologie europee è praticamente impossibile e i processi critici non si possono certo fermare in attesa delle tecnologie europee. Ma una visione strategica che porti alla fine a riequilibrare il ruolo europeo nelle tecnologie digitali è del tutto possibile. E un governo italiano che ci creda può aiutare l’Europa a decidere di andare in questa direzione.


Foto: “Microsoft Bing Maps’ datacenter” by Robert Scoble is licensed under CC BY 2.0.