L’innovazione degli italiani e l’Italia

Articolo uscito in tre puntate nella pagina dei Commenti sul Sole 24 Ore, il 5 aprile, l’8 aprile e il 21 aprile


Che cos’è innovazione

ChatGPT. Carne sintetica. Uber. I casi in cui gli italiani sono tagliati fuori “per decreto” da qualche servizio o prodotto che si presenta come un’innovazione attraente o per lo meno interessante non mancano di certo. Altrettanti sono comunque i casi in cui gli italiani si arrangiano, procurandosi ugualmente i beni e servizi che vogliono. L’agenzia del farmaco italiana non consente la vendita di certi medicinali? E allora gli italiani si connettono al sito della farmacia del Vaticano che effettua alla luce del sole un servizio di spedizioni per i soli farmaci non in commercio in Italia. Più di recente, il Garante per la protezione dei dati personali interviene su ChatGPT provocandone il blocco in Italia? E allora gli appassionati si procurano una linea “vpn” che consente di uscire su internet con un indirizzo che non si trova in Italia e conversare ugualmente con l’intelligenza artificiale generativa più chiacchierata del momento. Le autorità pensano di proteggere i cittadini? E i cittadini, ingrati, aggirano le norme. Insomma, i casi sono due, apparentemente: o le autorità hanno ragione e impediscono l’accesso a false innovazioni pericolose per i cittadini; oppure le autorità hanno torto, impongono una visione del mondo antiquata, frenano il cambiamento, e i cittadini trovano il modo di dimostrare che l’onda del cambiamento non si ferma. E invece i casi sono più di due: perché accade anche che le autorità decidano di partire con un programma per l’energa nucleare e i cittadini trovino il modo di organizzare due dei referendum abrogativi di maggiore successo della storia repubblicana, dimostrando che la presunta innovazione si può invece anche bloccare. 

Il punto è che non sempre ci si può mettere d’accordo su quello che effettivamente è un’innovazione desiderabile. Uber si era presentata come tale: in mezzo mondo chi scende in un aeroporto può scegliere un taxi o prenotare su Uber un servizio di trasporto offerto da un cittadino con la sua macchina privata; in Italia non può perché le proteste dei taxisti sono più forti della politica per aumentare la competizione nel settore del trasporto urbano, sicché una piccola innovazione che potrebbe migliorare di poco la vita di tanta gente si ferma perché quella stessa novità è considerata un grande pericolo per un piccolo numero di persone. Ma bisogna anche ammettere che quella che Uber presentava come innovazione qualche anno fa si è rivelata limitatamente vantaggiosa per i consumatori e i lavoratori, mentre è stata soprattutto una grande idea per moltiplicare il valore degli investimenti finanziari di chi ha creduto nell’impresa, che attualmente capitalizza circa 60 miliardi di dollari.

Può sembrare che tutto questo sia uno dei classici labirinti decisionali di un paese normativamente bizantino. A ben guardare, però, l’impasse delle scelte innovative si spiega decodificando alcune diverse narrative, intorno alle quali si aggrega il consenso di almeno quattro parti della società. C’è chi ritiene che il progresso sia fatto di nuove tecnologie e di una dinamica molto chiara: ogni nuova versione è sempre migliore della precedente. Chi crede in questa idea di progresso senza limitazioni pensa che ChatGPT sia un elemento smagliante di un fiume di innovazioni inarrestabile, che di solito non nasce in Italia e che l’Italia spesso ignora. Secondo un’altra narrativa tutto ciò che arriva dalle multinazionali è semplicemente una manifestazione del loro potere che i cittadini subiscono più o meno inconsapevolmente. Una terza narrativa incrosta da secoli il dibattito nel paese: tutto ciò che la politica o le autorità decidono, salvo rare eccezioni, prima o poi viene delegittimato, nell’infinito conflitto tra gli eredi dei guelfi e dei ghibellini. Inutile aspettarsi un miglioramento: gli italiani fanno da soli, senza sperare qualcosa dal sistema. Infine, una narrativa più consolatoria fa notare che gli italiani in fondo se la passano bene e se ignorano le diavolerie moderne è soltanto perché non le ritengono tanto importanti.

Quadri schematici intorno ai quali si aggrega l’opinione di molte persone che con questi “frame” leggono i fatti in modo da trovarci sempre un motivo di conforto sulla validità delle loro idee. Ma vale la pena di decodificare queste narrative se si vuole ripartire con una visione più fondata empiricamente e magari anche tale da favorire una valorizzazione delle forze innovative che pure esistono e sono forti nel paese.

Il contesto europeo potrebbe costituire un punto di partenza per migliorare la qualità del dibattito. In Europa non si pensa come negli Stati Uniti che qualsiasi novità tecnologica vada proposta al mercato per vedere che effetto fa. Si tenta piuttosto di tener conto di ciò che si può sapere sulle conseguenze delle nuove tecnologie prima di introdurle sul mercato. E questa impostazione comincia a essere applicata anche al digitale. L’idea è dare una direzione all’innovazione. Con un approccio pragmatico. La Commissione Europea ha frenato in passato tecnologie che si presentavano come innovative, come gli “organismi geneticamente modificati”. Ma si trova adesso a ridiscutere il tema di fronte a tecnologie diverse, come il CRISPR CAS9. Anche nel caso dell’auto elettrica tenta pragmaticamente di studiare alternative che possano salvare molti posti di lavoro, cercando nuovi combustibili che consentano un azzeramento delle emissioni di CO2. La policy europea, che non sempre riesce, non si piega supinamente alle nuove tecnologie ma tenta di indirizzarne lo sviluppo. Quando appunto funziona questa impostazione consente di disegnare normative abilitanti per un’innovazione che risponde a certi scopi socialmente desiderabili. 

Il problema, appunto, è che non sempre questo approccio funziona. Quando funziona è perché le autorità comprendono molto bene la tecnologia e il suo impatto sociale. Il che avviene di solito seguendo una curva di apprendimento che non porta a risultati immediati. La lentezza europea è un problema. Ma per l’Italia resta un punto di riferimento. Per la legittimità delle istituzioni europee e per l’esempio delle loro policy relativamente competenti ed empiricamente aperte. Dovessero trovare un equilibrio tra la proria innovatività e un contesto istituzionale funzionante, gli italiani potrebbero avere un grande ruolo da giocare in Europa. Il problema degli italiani, come si sa, è il sistema Italia. Ma tutto questo sta cambiando? Su questo punto vale la pena di approfondire.

L’Italia e gli italiani

Ma l’Italia è un paese per innovatori? La risposta è meno banale di quanto sembri. A giudicare dagli indicatori internazionali, si direbbe di no: anche l’ultima edizione dello European innovation scoreboard, uscita a fine 2022, colloca in testa Svezia, Finlandia, Olanda e Belgio, mentre vede l’Italia nel gruppo dei penultimi, con Spagna, Portogallo, Grecia e altri. L’Italia, del resto, non ha mai brillato in termini di quantità di brevetti, di venture capital, di startup divenute unicorni, di percentuale della ricerca sul totale del Pil. Eppure le sue esportazioni continuano a crescere, a due cifre nel 2022, e sono arrivate a 625 miliardi, dice l’Istat, con una quota mondiale vicina al 3% che mantiene l’Italia comodamente tra i primi dieci paesi esportatori del mondo. E quindi i casi sono due: o gli italiani esportano prodotti vecchi, oppure innovano in un modo che sfugge agli indicatori standard. La narrativa dell’Italia arretrata potrebbe generare previsioni che si avverano per i motivi sbagliati. Ma il compiacimento per i risultati ottenuti in passato, nonostante tutto, potrebbe diventare disattenzione per le dinamiche tecnologiche e normative internazionali contemporanee, col risultato di provocare un’arretratezza ancora maggiore.

Già. Vista da fuori, l’Italia ha i suoi ammiratori. Nella classifica stilata dall’Ipsos sulla notorietà dei paesi, l’Italia arriva terza, dopo Stati Uniti e Regno Unito, ma prima di Francia, Spagna, Germania e tutti gli altri. E, nonostante sia parlato da meno dell’1% degli umani, l’italiano è la quarta lingua più studiata all’estero, secondo EuroTrad: ha superato il francese nel 2015 e da allora non cessa di crescere in oltre 115 paesi del mondo dove si può studiare. Ma vista da dentro, l’Italia è raccontata come una sorta di fiera delle occasioni perdute, che non tiene il ritmo innovativo di Stati Uniti e Cina, ovviamente, ma neppure dei paesi del Nord Europa.

È una lettura realistica? Sebbene finora gli italiani siano riusciti a tenere a galla l’Italia, il problema sorge osservando la grande trasformazione economica e tecnologica che avviene altrove, sulla scorta di competenze digitali avanzate o di investimenti in ricerca scientifica che non sembrano abbondare in Italia tanto quanto le ricorrenti decisioni contrarie all’innovazione: e ci si domanda se il paese riscirà a tenere il ritmo globale anche in futuro. Ma per guardare avanti è buona regola partire dalla prospettiva.

Da almeno sette secoli, gli italiani sono consapevoli delle loro qualità e insieme si lamentano dell’Italia. L’analisi archetipica è quella di Dante che, nel sesto canto del Purgatorio, parte in tono alto con «Ahi serva Italia», passa all’ovvia analisi politica – «nave sanza nocchiere» – per terminare con un commento da social network: «bordello». Gli italiani dal Trecento in poi dimostrano una consapevolezza chiarissima della loro condizione: sono innovatori straordinari nel commercio e nella produzione, inventori della partita doppia e della borsa, grandi scienziati ed esploratori, maestri della moda e del buon gusto, nonché della convergenza della tragedia nella commedia; anche perché vivono in un paese che paragonato agli altri appare debole nella dimensione istituzionale, unificato dalla lingua e dalla letteratura più che dalla politica, frammentato dalle faide familiari, dai tirannelli locali, dalle divergenze tra le corporazioni, dai muri di gomma delle burocrazie. Sicché si trovano in un perenne equilibrio instabile, tra l’iniziativa individuale e l’immobilità collettiva, con un costante senso di inadeguatezza al confronto con i competitori internazionali.

Storicamente, i motivi per temere che questo significhi perdere terreno nella competizione mondiale non mancano. Da quando le rotte oceaniche hanno soppiantato strategicamente quelle mediterranee, le flotte spagnola o inglese hanno surclassato le marine italiane. Da quando l’industrializzazione è cominciata in Inghilterra, l’Italia è stata sempre una sorta di inseguitore nel campionato dei giganti, mentre se l’è cavata nelle competizioni nelle quali l’industrializzazione dell’abilità artigiana era più importante delle economie di scala. Da quando il digitale e l’intelligenza artificiale sono diventati i motori della nuova crescita, l’Italia non cessa di lamentare la mancanza di persone competenti, registrata anche dal Digital Economy and Society Index della Commissione Europea.

Ma il confronto con l’esperienza degli altri paesi va condotto con razionalità. Altrimenti fa perdere di vista la realtà: quella che spiega perché gli italiani, con meno capitali e risorse, riescono a essere tra i primi produttori di tecnologie avanzatissime, dai robot industriali alle componenti per l’aerospaziale, dalla farmaceutica alla meccanica di precisione, dai chip per il controllo delle auto senza pilota alle navi da diporto più avanzate, e così via. Il confronto con l’estero non deve essere inteso in senso strumentale a gestire le conflittualità locali ma va inteso come una chance di apprendimento.

Il rischio è che dopo i tanti bravi laureati e tecnici, che dimostrano in giro per il mondo le qualità della scuola e della cultura italiana, se ne vadano anche le aziende più avanzate, attratte dai capitali e dai sistemi giuridici più ospitali. Le multinazionali italiane hanno dimostrato ben pochi scrupoli quando si trattava di inseguire qualche banale beneficio portando la sede in qualche paradiso fiscale come l’Olanda. È ancora più grave se all’estero vanno gli innovatori, quelli che non devono preservare patrimoni ma generare nuova ricchezza: se vanno all’estero si portano via un pezzo di futuro. Durante la crisi aperta dalla decisione del Garante per la protezione dei dati personali a riguardo di OpenAI, alcune imprese avanzate dell’intelligenza artificiale italiane hanno pensato di portare lo sviluppo tecnologico al di fuori del paese per non essere frenate da un contesto poco chiaro.

La strategia della crescita in Italia è quella di far nascere più start up, attrarre capitali e aziende innovative, mantenerle in Italia. L’opportunità di lavorare da remoto potrebbe essere un vantaggio in questo senso. Così come la disponibilità di tecnologie efficienti per gestire un’organizzazione aziendale in rete. Localizzare in Italia produzioni ad alto valore di conoscenza contando sui costi limitati e la qualità del territorio è una possibilità reale. Ma soltanto se il clima economico del paese è consapevole delle dinamiche che si respirano a livello globale.

L’innovazione come fenomeno culturale

Ebbene. Come ci si può districare tra giudizi e pregiudizi per comprendere se l’Italia può stare al passo con il mondo dal punto di vista dell’innovazione? È possibile parlare di innovazione in Italia senza farsi intrappolare in una rete di valutazioni deludenti? Che cosa insegnano le classifiche nelle quali l’Italia si trova agli ultimi posti per quanto riguarda i brevetti, la quantità di investimenti in ricerca, la disponibilità di competenze digitali, ma resta uno dei primi dieci esportatori del mondo, con prodotti spesso tecnologicamente sofisticati?

Il primo pregiudizio da sciogliere riguarda proprio i numeri. Perché la famosa diagnosi del principe Klemens von Metternich si può attualizzare: «L’Italia è solo un’espressione statistica». Nelle classifiche europee e mondiali, in effetti, l’Italia esiste; ma i numeri sull’Italia indicano una media di realtà molto diverse. Il Regional Innovation Scoreboard della Commissione Europea mostra che alcuni territori come la Lombardia e l’Emilia Romagna sono al di sopra delle medie europee, per alcune variabili cruciali, mentre altre regioni sono al di sotto. Non c’è da stupirsene. In una geografia che ospita la massima biodiversità in Europa, vivono culture storicamente distinte, aggregate in uno stato-nazione relativamente recente. Il progetto unitario resta incompiuto. Il PIL procapite è di 33mila euro al Centro-Nord, di 18mila al Sud. Gli scarti regionali sono profondi. Il PIL procapite della Calabria è il 39% di quello del Trentino Alto Adige, dice l’Istat. La spesa mediana mensile delle famiglie in Emilia Romagna è di 2.800 euro contro 1.700 euro della Sicilia. Nel Centro-Nord un terzo dei giovani ha di solito un titolo di studio terziario: un quinto al Sud. Le infrastrutture abilitanti, le connessioni, i servizi pubblici, gli asili nido, i centri di ricerca a loro volta sono distribuiti in modo diseguale. Come paradossale conseguenza, molte regioni tentano di sviluppare una propria strategia per l’innovazione e le start up nascono in molti territori senza trovare come in altri paesi pochi poli significativamente più grandi di altri: la stessa Milano che è certamente più avanti delle altre città non è per l’Italia un polo capace di concentrare le risorse come Parigi o Londra lo sono nei loro paesi. D’altra parte, le stesse statistiche regionali indicano che tutti i territori, chi più chi meno, presentano risultati scarsi rispetto all’Europa negli investimenti in ricerca, nei brevetti, nella disponibilità di compentenze digitali avanzate.

Il PNRR ha tentato di risolvere il paradosso connettendo i centri di ricerca, le università e gli ecosistemi imprenditoriali per grandi filoni tematici, con strutture organizzative innovative per l’Italia e con tempistiche legate alla durata del programma europeo. Una strategia nazionale, discussa a livello sovranazionale, che coinvolge attori locali. In teoria, una soluzione equilibrata. Ma in pratica, per adesso, non si riesce a comprendere se il sistema funziona: la quantità di finanziamenti mai vista che gli ecosistemi si sono trovati a poter gestire, per temi strategici che vanno dalla mobilità sostenibile alla biodiversità, sembra attrarre l’attenzione e attivare numerose iniziative ma, insieme, appare impastoiata in labirinti burocratici che neppure le più brillanti menti dell’innovazione pubblica italiana impegnate in questi progetti sembrano in grado di risolvere velocemente. 

Insomma. L’Italia non è la sua media. Non ha un sistema-paese paragonabile a quello dei più solidi competitori europei, per non parlare di Usa e Cina. Anche le sue regioni migliori non possono da sole creare le precondizioni standard per l’innovazione come la si intende in molti poli innovativi come Londra e Israele, Berlino e Parigi, per non parlare della California o del Massachussets. In quei poli, un’abbondanza di capitali riesce a moltiplicare le possibilità che la ricerca scientifica trovi soluzioni potenzialmente importanti per il mercato e a sostenere le start up nel periodo in cui non fatturano ma cercano di fare incontrare importanti novità tecnologiche con modelli di business solidi. Ci si può piuttosto domandare: se in Italia non si trovano le condizioni standard che favoriscono l’innovazione, come fanno gli italiani che ci riescono a restare competitivi? E su questa base si può inventare una politica per l’innovazione che possa trascinare nella modernizzazione l’insieme del paese?

Intervistando gli innovatori italiani si scoprono alcune caratteristiche originali. Si trova che non potendo impiegare molti capitali nella sperimentazione di novità tecnologiche, devono ricorrere a molta immaginazione per pensare le conseguenze delle loro idee. Oppure sviluppano relazioni tanto intime con i loro clienti da poter progettare innovazioni insieme a loro. O ancora applicano le loro abilità artigiane alle più avanzate tecnologie meccaniche e robotiche. E naturalmente in molti altri casi trasformano il loro gusto in design, unendo tradizione e innovazione, nell’alimentare, nell’arredamento, nell’abbigliamento. Insomma, gli italiani che non possono contare su grandi capitali da investire nella ricerca di innovazioni, le trovano facendo leva su un patrimonio di valore inestimabile: la loro cultura millenaria che arricchisce l’immaginazione, l’empatia, la resilienza. La cultura che tiene insieme famiglie e territori, culture e organizzazioni. La cultura che diventa una fonte rinnovabile di energia imprenditoriale. Una cultura che però deve adattarsi al cambiamento.

E allora una domanda si fa urgente: in un contesto in grande trasformazione, questo patrimonio culturale continuerà anche in futuro ad alimentare la capacità innovativa degli italiani? La domanda è troppo complessa per queste righe e per questo autore. Una risposta incoraggiante si trova nell’inchiesta pubblicata nel libro di Antonio Larizza, appena uscito per il Sole 24 Ore, sulle sorprendenti doti innovative degli italiani che si ritrovano applicate alla nascita dell’industria dell’auto elettrica. Una velocità di adattamemento, non certo programmata dalla policy, che sottolinea come le qualità della società italiana restino vive. 

Non ci sono ricette standard per accelerare l’innovazione in un paese come l’Italia. Ma se è vero che le speranze di rilancio poggiano sulle qualità storiche degli italiani, allora la prima policy deve essere quella che riguarda la salvaguardia di quel patrimonio culturale, il suo rilancio, la sua manutenzione, la sua valorizzazione. E la consapevolezza della sua importanza.


Foto: Particolare della copertina del libro “Eppur s’innova. Viaggio alla ricerca del modello italiano“, Luiss University Press 2022, nominato nella cinquina dei possibili vincitori del premio Libro sull’innovazione dell’anno 2023, a Padova. La cinquina completa è:

  • Accoto Cosimo, Il mondo in sintesi (Egea)
  • Amendola Luca, L’algoritmo del mondo (Il Mulino)
  • Caldarelli Guido, Senza uguali (Egea)
  • De Biase Luca, Eppur s’innova (Luiss)
  • Esposito Elena, Comunicazione artificiale(Egea – Bocconi University Press)

Oggi si è parlato di tutto questo alla Sissa.