Articolo pubblicato su Nòva, Il Sole 24 Ore, domenica 23 aprile 2023. È il secondo di una serie sulle città. Il primo era “Alla ricerca della città del futuro“, pubblicato il 9 aprile su Nòva.
I conti sono presto fatti. Nel 2008 la quota della popolazione mondiale che viveva in città ha raggiunto il 50%: circa 3,5 miliardi di persone. Nel 2050, secondo le proiezioni dell’Onu, gli umani saranno quasi 10 miliardi e, dice l’Oms, il 75% vivrà in città, circa 7,5 miliardi. Poiché nel 2021 la popolazione urbana aveva raggiunto i 4,4 miliardi, si può stimare che nei prossimi 25 anni anni si dovranno costruire nuove città, quartieri, palazzi per circa 3 miliardi di persone. E peraltro ciò che è già stato costruito dovrà affrontare il cambiamento climatico, sia in termini di prevenzione che di adattamento. Difficile immaginare che ci sarà qualcosa di più grande della progettazione urbana. Come si opereranno le scelte principali? Sarà un fenomeno guidato dalla scienza, dalla tecnologia digitale, dalla politica, dal capitalismo, dalla creatività o dalle micro storie della vita quotidiana?
Le certezze sono sproporzionatamemente inadeguate rispetto all’importanza delle domande. Ma le risposte avranno conseguenze fondamentali. Le città, scriveva lo storico Fernand Braudel, «sono gli acceleratori dell’intero tempo della storia». Lo confermano le ricerche di Geoffrey West, fisico, studioso della complessità, interessato all’evoluzione urbana. West ha definito il concetto di “urban superlinear scaling”. Su questo tema, ha spesso collaborato con Carlo Ratti, architetto e ingegnere che insegna all’MIT, che nel suo libro “Urbanità” (Einaudi 2022) spiega: «Se misuriamo il numero di brevetti in due città, una grande il doppio dell’altra, troveremo valori che crescono in maniera più che proporzionale. Questa dinamica vale per molti altri aspetti, quali il numero di inventori, la densità di lavori creativi o, a livello aggregato, persino il prodotto interno lordo procapite». Il che significa che la grande progettazione urbana del prossimo quarto di secolo non solo dovrà rispondere alla necessità urgente di accomodare 3 miliardi di persone e di rispondere in modo proattivo e difensivo alle sfide ecologiche e alle grandi migrazioni, ma avrà anche ineludibili effetti, abilitanti o frenanti, per l’innovazione tecnologica e sociale, per la qualità della vita culturale, per la stessa economia. Dunque per tutto ciò che servirà all’umanità che dovrà imparare ad affrontare la sua avventura esistenziale.
L’idea di futuro è un ingrediente fondamentale del processo che porta a queste decisioni. Non tanto l’idea di futuro che sta nella mente dei pochi progettisti: la Brasilia di Niemeyer e la Chandigarh di Le Corbusier sono sempre più spesso portate a esempio del fatto che la vitalità di una città non può essere pensate autocraticamente. In realtà, si tratta dell’idea di futuro che sta nella mentalità dei cittadini. Alessia de Biase, antropologa urbanista a Parigi La Villette, ha studiato come si pensa il futuro della città. Ha osservato che con l’accelerazione della tecnica si è verificato un accorciamento della proiezione della città nel futuro: mentre nel 1771 esisteva una produzione editoriale che riguardava Parigi nel 2440, dice, oggi non si parla che di Parigi nel 2030. È una sconfitta dell’immaginazione che diventa un’opportunità: intervistando la popolazione di Parigi su come si immagina la città nell’anno 3000 si scoprono le priorità, le sofferenze, i desideri della popolazione e si impara a progettare meglio.
Studiando i big data, usando l’intelligenza artificiale, al Senseable City Lab dell’MIT si leggono i comportamenti delle persone e si sviluppa un metodo come il “futurecraft”. Racconta Ratti: «Parte dall’idea che il mondo “artificiale” – città, strade, edifici – sia soggetto ad alcune dinamiche evolutive proprie del mondo “naturale”. Compito del progettista è accelerare l’evoluzione dell’artificiale. L’architettura è un agente mutageno. Il designer non guida il processo: fa delle proposte progettuali che il pubblico eventualmente seleziona. Futurecraft è un metodo di progettazione che attiva una relazione con gli stakeholder e innesca un ciclo di feedback». La complessità del contesto urbano non consente banalizzazioni, solo consapevoli e partecipate semplificazioni. Ma alla fine c’è una scienza delle città? O c’è soltanto l’imprevedibile concerto di tensioni e contraddizioni che a chi cerca risposte sul futuro risponde: lo sapremo solo vivendo?
La città è una tecnologia della memoria. È un sistema di connessioni. È un aggregato di luoghi di elaborazione della cultura. È la forma sempre in movimento della sostanza immateriale della comunità. Lo insegna in fondo il grande libro di Lewis Mumford, “La città nella storia”, scritto nel 1961, generatore dell’interpretazione ecologica della città. Se è memoria, connessioni, elaborazioni vissute dalle persone allora la città è un’intelligenza collettiva. E se evolve in un ecosistema costruito dagli umani, allora ha bisogno di un’energia che non è solo efficientemente materiale, ma anche sentimentalmente coinvolgente. Nella grande trasformazione tecnologica, demografica, ecologica che l’attualità presenta alle società urbane, il futuro delle città coincide con la loro capacità di interessare persone di talento, si spiega con la densità di attività creative, si alimenta con gli investimenti nell’educazione, nella cultura, nella ricchezza delle relazioni intergenerazionali. Questo detta le priorità. Gli spazi pubblici sono decisivi insegna l’architetto Jan Gehl, maestro dell’ascolto dei comportamenti degli abitanti. E Mumford sintetizzava: «lasciate perdere le maledette auto e costruite le città per gli innamorati e gli amici».
Foto: “Hauswand mit Fensterfront” by maltehempel_de is licensed under CC BY-SA 2.0.