Il dibattito avviato dal pezzo di Gianni Riotta sulla verità e internet va avanti. E anch'io ho scritto un contributo (che riporto anche qui sotto). Mentre va avanti anche una discussione su un altro blog. E se ne parla anche qui: Maremma, Mantellini, Scene digitali, Pd Vedano Olona, BlogNotes, Tre scogli, Omniaficta, LostSpace, Spazio della politica, Ideas Repository, Vittorio Pasteris, Luca Massaro, Gigi, WebNotes. GardaLine, Webeconoscenza, Antonio Larizza.
Nella rete c'è quello che siamo
Nello stanzino di Remo Bodei, a Pisa, poco prima della sua partenza per
Los Angeles. L'architettura dell'università invitava a sintonizzarsi
con la lunga durata della cultura, l'arredamento denunciava la
limitatezza delle risorse destinate alla ricerca filosofica, il
computer sulla scrivania ricordava l'urgenza delle domande. Che cosa
diventa la memoria nell'epoca di internet? Che cosa succede alla
ricerca, alla filosofia, allo stupore? Come cambia il modo di pensare
di chi si immerge nella rete?
Pisa è uno dei centri della cultura informatica italiana, grazie a
un dono di intelligenza di Enrico Fermi che, nel 1954, suggerì di
investire i 150 milioni messi a disposizione dell'università dalle
autorità locali, come riporta Pietro Maestrini, nella costruzione di
una calcolatrice elettronica: «Costituirebbe un mezzo di ricerca di cui
si avvantaggerebbero in modo, oggi quasi inestimabile, tutte le scienze
e tutti gli indirizzi di ricerca». Era con questa consapevolezza che
Remo Bodei rispose.
«Immerse nella Rete, le persone hanno l'esperienza di un
iperpresente nel quale tutte le conoscenze sono accessibili. Ma
accessibili nello stesso tempo. È un'enorme ricchezza e un cambio di
prospettiva». Si arriva ai risultati, che sono straordinariamente
arricchenti, ma senza sperimentare quelle inefficienze con le quali si
acquisisce la consapevolezza dei modi diversi con i quali sono stati
realizzati: i podcast delle lezioni al Collège de France, accanto ai
brani di Lady Gaga; le voci del popolo di Wikipedia accanto ai
documenti dell'Europeana; le foto pubblicitarie accanto alle
riproduzioni delle collezioni museali. Un web della consultazione,
facilitata da Google, da iTunes, da Bing, da Wolfram Alpha. Al quale si
aggiunge il web della segnalazione: la vita quotidiana su Facebook, su
Twitter, con Delicious, mostra che l'interessante è spesso lo scambio
di link, foto, video. Si è bravi "conversatori" con gli "amici" nel
momento in cui si danno agli altri suggerimenti davvero interessanti o
semplicemente curiosi, bizzarri. È un livello dello scambio di
conoscenze che ne produce meno di quante ne faccia circolare. Chi ci sa
fare, ne emerge con la mente più aperta, chi si chiude tra i soliti
amici culturalmente omogenei, perde un'occasione. Come accade, del
resto, a chi si chiude in una stanza ad abbeverarsi solo di programmi
televisivi.
C'è chi lo fa. E c'è bisogno dunque di migliorare la nostra
consapevolezza delle qualità e dei difetti di questo strumento. Ma si
può dire che questo riduca la profondità culturale? Ha ragione Nicholas
Carr nel domandarsi se per caso Google ci renda stupidi? La domanda è
viva, come dimostra il fiuto di John Brockman, anima di Edge, che ha
appena organizzato il suo annuale dibattito (online) intorno alla
domanda: «In che modo internet sta cambiando il nostro modo di
pensare?». È una domanda volutamente ambigua, perché riguarda sia
quello che pensiamo sia i nostri percorsi cognitivi. Che induce per
esempio il fisico Daniel Hillis a sottolineare che «Internet non è il
web. Oggi si telefona con internet, si gestisce il traffico aereo su
internet, si governa la logistica mondiale con internet. E anche in
questo modo internet cambia il nostro modo di pensare. E lo cambierà
ancora di più in futuro». Quello che si è fatto con internet finora non
è niente in confronto a quello che ancora ci si può fare.
Già, che cos'è internet? Un generatore di cultura o la conseguenza
di una cultura? Descrivere la rete con un taglio netto, come si
potrebbe fare con una lavatrice, è una tentazione grande quanto la sua
complessità. Possiamo dirci soprattutto quello che non è: non è Google,
non è Wikipedia, non è Facebook. Non è il web. Non è un mezzo di
comunicazione. Non è la biblioteca di Babele. Non è nessuna delle
metafore che sono state utilizzate per definirla in modo semplice e
veloce. È nata nel 1969 per servire gli scienziati di diverse
università americane, tutti conosciuti e culturalmente omogenei. Gente
che pensava come Fermi a un mezzo di cui si sarebbero avvantaggiate
tutte le scienze e tutti gli indirizzi di ricerca.
È evoluta in direzioni impreviste. Ma con una regola sempre chiara:
è evoluta essenzialmente sulla scorta dell'iniziativa di chi ha visto
in internet un'opportunità e ha tentato di coglierla. L'atteggiamento
di chi è interessato alla rete, per il modo in cui è costruita, non è
mai quello di subire quello che produce e giudicarlo: l'atteggiamento è
quello di prendere in mano un progetto e realizzarlo. Per migliorare la
situazione dal suo punto di vista. Perché la rete non è soltanto quello
che è: è anche quello che si vorrebbe che fosse. Quello che critici o
entusiasti sperano che diventi. E il bello è che niente impedisce a
chiunque abbia un progetto in mente, di provare a realizzarlo.
Non chiedetevi che cosa può fare il web per voi: chiedetevi che
cosa voi potete fare per il web e avrete la risposta anche alla prima
domanda.