La chiamano “infonomics” per intendere l’”economia dei dati”. Con la digitalizzazione delle relazioni tra clienti e fornitori, con l’aggiunta di sensori ai prodotti e agli strumenti della logistica, con la diffusione di smartphone e strumenti di connessione mobile, ogni transazione tra le persone e ogni spostamento delle merci viene registrata: così le aziende acquisiscono un enorme patrimonio di dati.
Secondo Gartner, questa ricchezza viene spesso gestita in modo approssimativo e sfruttata troppo poco. Eppure servirebbe a modellizzare meglio i comportamenti dei clienti, le caratteristiche del contesto, le prevedibili evoluzioni della produzione e molto altro ancora.
L’infonomics è una disciplina emergente che serve a gestire e valorizzare in bilancio l’informazione accumulata dall’azienda con lo stesso rigore che si riserva agli altri asset di solito registrati nei libri delle imprese. Ovviamente la valorizzazione di questi dati richiede investimenti in soluzioni informatiche che i vendor cominciano a offrire, richiede conoscenze e skill che le università stanno iniziando a produrre, richiede design per la visualizzazione e l’analisi dei risultati. Soprattutto richiede leader in azienda che abbiano la sensibilità di sostenere questo cambiamento. E gioco di squadra tra le attività tecnologiche, di ricerca, di marketing, e così via.
Anche in Italia si stanno muovendo le telco, le assicurazioni, le università, la grande distribuzione ed è impossibile segnalare tutti. Ma quello che importa è osservare che i big data non sono destinati a restare appannaggio solo delle grandi piattaforme americane. Soprattutto se le aziende lavoreranno in un’ottica di open innovation: anche perché potranno trarre il massimo valore dai loro dati solo correlandoli a quelli che si registrano in altre organizzazioni. E potranno costruire un business durevole con i dati, diverso da quello dei concorrenti di oltre oceano, se sapranno gestirli in modo rigorosamente attento alla privacy.
Articolo pubblicato su Nòva il 18 ottobre 2015