Il Quantum Manifesto – scritto l’anno scorso raccogliendo le voci di migliaia di scienziati europei – chiama l’Europa a spingere lo sviluppo e l’applicazione delle tecnologie quantistiche per ottenere “una trasformazione che permetta un avanzamento nella scienza, nell’industria e nella società”. Con il termine “quantistico” ci si riferisce a processi che si basano sullo scambio, l’interazione e la misura dei costituenti elementari del nostro mondo: elettroni, fotoni, singoli atomi o nanostrutture. Si può quindi sfruttare la loro natura intrinseca e in molti casi controintuitiva. Le proprietà quantistiche si possono sfruttare in algoritmi e protocolli potenzialmente in grado di generare grandi innovazioni: dalla riduzione della complessità dei calcoli sui quali si basa la moderna crittografia, ai sensori della gravità locale e del movimento di grande precisione, a beneficio della navigazione e dell’analisi del sottosuolo.
La risposta della Comunità Europea al Manifesto è stata entusiastica: dall’anno prossimo partirà la Quantum Technology Flagship per la quale Bruxelles investirà in questo settore un miliardo di euro nei prossimi dieci anni. Il Cnr è già partito con il coordinamento dei vari enti e università che svolgono importanti ricerche di frontiera nel settore per favorire la partecipazione italiana alla Flagship.
Ma è necessario che questa opportunità di cambiamento venga compresa anche al di fuori dei Laboratori, dato che queste tecnologie hanno lo scopo di fornire un vantaggio competitivo a chi riesce a sfruttarle e convertirle – prima di altri – in prodotti innovativi. Auspico per questo un vostro diretto intervento!
Paolo Villoresi
quantumfuture.dei.unipd.it
Università di Padova e CNR-IFN
Caro Villoresi
Ha ragione a sottolineare il potenziale delle tecnologie quantistiche e la ringrazio di averne sintetizzato il significato. Il potenziale di queste tecnologie nella cybersicurezza e in altre questioni di frontiera, è straordinario. Il miliardo che l’Europa intende investire in questa ricerca è significativo. E fa bene a sottolineare le grandi competenze italiane in materia. Ma con la crescita della complessità e della velocità d’innovazione, anche il sistema dell’informazione si deve aggiornare per consentire all’ecosistema della ricerca, dell’industria e della finanza di sincronizzarsi col ritmo dettato dallo sviluppo della tecnologia più avanzata.
Si fa un gran parlare dei rischi che corre il lavoro a causa della tecnologia. E nello stesso tempo c’è una retorica dell’innovazione che pervade gran parte del dibattito. Ma per discutere come si deve di innovazione occorre decostruire il nesso tra innovazione e tecnologia. Naturalmente non sto mettendo in dubbio l’importanza della tecnologia: sto dicendo piuttosto che innovare vuol dire prima di tutto cambiare la cultura, l’approccio, i modi di essere e di fare, delle persone e delle organizzazioni. E che questo è il modo con il quale si può risolvere il problema del rapporto problematico tra tecnologia e lavoro.
Il nostro è un paese che dà troppo valore ai soldi e troppo poco al lavoro, troppo valore a ciò che si ha e troppo poco a ciò che si sa e si sa fare, e invece a mio avviso bisogna partire proprio da lì, dal lavoro e dal suo valore, dall’importanza di fare bene le cose, qualunque cosa bisogna fare: pulire una strada, progettare un centro direzionale, curare un ammalato, dirigere un’azienda, aggiustare una macchina, cucinare la pasta e fagioli.
Immagino cosa stia pensando il lettore di questa lettera: l’idea di un Paese dove ognuno fa bene quello che deve fare e tutti vivono meglio è bella, ma impossibile, sono in ballo questioni di potere, di diritti e di doveri, di etica, di rispetto delle regole.
Secondo me quel lettore si sbaglia. La mia innovazione si chiama #lavorobenfatto. Cerco esempi. A partire dall’idea che qualsiasi lavoro, se lo fai bene, ha senso; che nel lavoro dove tieni la mano devi tenere la testa, dove tieni la testa devi tenere il cuore; che ciò che va quasi bene non va bene.
Io penso che si possa fare, perché fare bene le cose è bello, è giusto, ma soprattutto conviene.
Vincenzo Moretti
Caro Moretti
La preoccupazione che l’insieme di robotica e intelligenza artificiale possa portare via il lavoro agli umani è alimentata da studi anche controversi come quelli di Carl Benedikt Frey e Michael Osborne che in un paper del 2013 stimavano che addirittura il 47% dei posti di lavoro negli Stati Uniti rischiano di sparire a causa della tecnologia. Frey e Osporne spiegavano così l’osservazione di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee secondo i quali in questo secolo si è disaccoppiata la crescita della produzione e quella dell’occupazione e ricordavano come già John Maynard Keynes immaginasse che a un punto la scoperta di sistemi per economizzare sull’uso di lavoratori avrebbe superato la creazione di nuovi posti di lavoro. L’Ocse propone dati meno drammatici ma pur sempre preoccupanti: “solo” il 10% dei posti rischierebbe di sparire. Il fatto è che l’adattamento del sistema economico al progresso tecnologico non si può valutare soltanto in termini di costi e ricavi monetari. Piuttosto si dovrebbe valutare in temini di creazione di valore, che è un concetto più ampio: che comprende il valore aggiunto contabilizzabile e quello che si sperimenta in termini di qualità della vita. L’uno senza l’altro non hanno senso. L’innovazione tecnologica è un gioco a somma zero se si pensa che essa avvenga in un mondo nel quale il valore non cresce ma viene soltanto spartito diversamente. Può essere a somma positiva se alla fine il valore – nel doppio senso quantitativo e qualitativo – cresce per tutti. Ma questo è anche il modo per valutare l’innovazione: se non accresce insieme qualità e quantità non è innovazione, ma semplicemente novità.
Questa rubrica di lettere è uscita sul Sole 24 Ore, sabato 29 aprile 2017