Si delinea una discussione epocale. Una critica frontale viene rivolta alla visione proposta dalla Singularity University. Arriva da Joi Ito del MediaLab.
Per i fondatori dell’università californiana, la crescita esponenziale della capacità di elaborazione dei computer è destinata a proseguire, accelerando l’avvento di un giorno in cui le macchine saranno molto più intelligenti degli umani e a questi ultimi non resterà che accettare la propria inferiorità.
Il potere immenso di Silicon Valley e dei finanziatori della Singularity ha fatto in breve tempo di quella università un luogo ambito di formazione, per il quale si pagano grandi quote di iscrizione e dal quale si esce con l’animo rafforzato di chi è convinto di aver capito tutto del futuro. Peccato che si tratti di un’idea meno che solida, scientificamente. Chi scrive aveva chiesto, scherzando, a uno dei docenti della Singularity University, Vivek Wadhwa, se non si potesse paragonare l’ateneo per il quale allora lavorava a una forma evoluta di Scientology. E Wadhwa aveva annuito sorridendo: in effetti, qualche mese dopo avrebbe lasciato quel posto.
Ma adesso la critica arriva da Joi Ito, direttore del MediaLab di Cambridge Massachusetts, che descrive l’approccio della Singularity come una religione, che banalizza la visione del futuro della tecnologia. Una fase esponenziale esiste nelle tecnologie di successo ma è seguita sempre da un rallentamento, come nelle curve logistiche, quando l’ambiente al quale quella tecnologia è rivolta viene saturato. Per Joi Ito, la metafora giusta per descrivere il futuro della tecnologia è molto più simile a quella dell’evoluzione biologica.
La visione tecnocentrica della Singularity ha il difetto di predire un futuro indipendente dalle scelte umane: la tecnologia segue il suo destino, gli umani si adattano, la resistenza è futile, direbbero i borg di Star Treck. E invece, dice Joi Ito, il futuro della tecnologia è responsabilità degli umani. È molto meglio assumere un approccio ecologico al futuro. Altrimenti ci roviniamo con le nostre mani. E con le nostre menti.
Articolo pubblicato su Nòva l’11 marzo 2018