Un luogo per il lavoro del futuro non è una destinazione ma una stazione, dice il designer architetto Michele De Lucchi commentando l’inaugurazione dell’OpenZone lanciata dal gruppo Zambon a Bresso. «È un luogo dedicato all’incontro e allo scambio». Ci sono uffici e laboratori, ma soprattutto spazi comuni per le relazioni. Si arriva con un insieme di idee e, incontrando gli altri, si riparte con idee più ricche. Carlo Ratti, architetto scienziato che ha collaborato alla progettazione degli interni dell’OpenZone, suggerisce di vedere il luogo come un nodo della rete mondiale che costruisce l’economia della conoscenza. E infatti ci sono startup e grandi imprese a collaborare in un quadro di open innovation specializzato nel mondo delle scienze della vita. L’impostazione di questo progetto è istruttiva.
Poiché l’innovazione non è una semplice novità, ma un cambiamento profondo in un sistema, il pensiero che la genera non ha mai soltanto una dimensione. E certamente non è mai soltanto tecnologico. Perché un’innovazione non è tale quando è proposta, ma quando è adottata. Sicché implica sempre cambiamenti anche culturali, sociali, organizzativi. Nel progetto innovativo c’è spesso un tema di cambiamento nel modello di business, nella concettualizzazione dei prodotti e servizi, persino nella qualità delle relazioni umane prevalenti nei gruppi coinvolti. L’innovazione deriva dall’ecosistema e ha conseguenze sull’ecosistema. Insomma: è una materia complessa e non lineare. Non a caso si tende a concettualizzarla talvolta come “cambio di paradigma”. E uno degli ambiti dell’attualità nei quali si vedono segni di un nuovo paradigma emergente è quello della relazione tra la dimensione della comunità e il sistema degli scambi. E come dice Raghuram Rajan nel suo “Il terzo pilastro. La comunità dimenticata tra stato e mercati” (Università Bocconi Editore, 2019) il confronto emergente è proprio quello che distingue tra relazioni e transazioni. È chiaro che un luogo del lavoro del futuro deve tener conto della dimensione di comunità, della qualità delle relazioni, non soltanto dell’efficienza nelle transazioni.
Il valore dell’automazione e delle piattaforme è evidente. Ma si ferma alle transazioni. Il valore che deriva dalla capacità di pensare e affrontare la complessità, di vedere il rapporto tra valori e decisioni, di connettere la qualità empatica alle funzioni di servizio da svolgere, insomma il genere di valore che con maggiori probabilità viene sviluppato dagli umani, non si ferma alle transazioni, ma anzi si fonda sulle relazioni. Dunque sulla comunità.
Se tutto questo non è soltanto teoria, allora si può ipotizzare che la dimensione di comunità, nell’economia della conoscenza, in un contesto digitalizzato, emerga non solo per definire il progresso umano, ma anche la generazione di valore economico.
Come si può scoprire se questa teoria regge nella pratica? Andando a vedere se davvero si genera più valore in un luogo pensato per le relazioni come appunto OpenZone. Ci crede Elena Zambon che guida il gruppo con in mente il suo sogno imprenditoriale. E ci crede anche il ceo Roberto Tascione, manager con una lunga esperienza in aziende americane, orientato a sviluppare una strategia di forte crescita per il gruppo. L’efficienza e la qualità sembrano convergere. La dimensione di comunità sembra emergere.
Articolo pubblicato su Nòva il 17 novembre 2019