In Australia, si prepara una legge che obbliga gli editori a cercare di arrivare a un accordo di licenza dei loro contenuti con Google e Facebook: se la trattativa non riesce partirà un arbitrato con autorità pubbliche; il che implica che comunque Google e Facebook paghino. Intanto, Facebook appoggia Epic, l’editore del gioco Fortnite, nella lotta al pagamento che Apple e Google pretendono da chi vende qualcosa sui loro negozi di applicazioni per telefonini. Apple peraltro cerca di ridurre la conflittualità, rimandando l’entrata in funzione di un aspetto della nuova versione del suo sistema operativo che, in nome della privacy, frena le pratiche che Facebook e Google adottano per tracciare i comportamenti degli utenti e vendere pubblicità mirata. Europa e Stati Uniti non cessano di monitorare la crescita del potere delle piattaforme digitali. Le autorità europee, per esempio, sono intervenute sull’acquisizione di Fitbit: hanno mandato una richiesta di informazioni di 60 pagine all’acquirente Google, cercando di capire in che modo i dati sulla salute dei cittadini europei raccolti dal braccialetto elettronico e dal motore di ricerca verranno aggregati. Il valore in borsa delle piattaforme peraltro è elevatissimo, nonostante la crisi mondiale e le ultime correzioni. Apple, Google, Amazon, Facebook e Microsoft insieme valgono più di 5mila miliardi di dollari. Le loro dimensioni sono tali da renderle il bersaglio di una quantità altrettanto grande di avversari.
Dove porta tutta questa conflittualità? Molti commentatori hanno l’impressione che ogni singolo attacco a questi giganti sia destinato ad assumere i connotati di una puntura di spillo che alla fine passa senza lasciare conseguenze. Non solo perché le sanzioni non sono mai abbastanza gravi da mettere in crisi i conti dei giganti. Ma anche perché mentre gli avversari contrastano un aspetto delle attività delle grandi piattaforme, queste si sono già avviate a creare molte altre iniziative potenzialmente problematiche. Forse occorre cambiare punto di vista.
Come scrivono Jeremy Heimans e Henry Timms nel loro libro “New Power” (Einaudi 2020) il potere di questo millennio non si accumula: circola. Non si difende, come un fondo: scorre, come un flusso. E questo perché il potere si basa sulla gestione dell’enorme flusso di informazione che moltissimi soggetti fanno circolare. E sulla parcellizzazione dell’attenzione. I due autori, peraltro, sono poco interessati al potere delle grandi piattaforme; scrivono per mostrare come la comprensione del modo di funzionare di internet possa essere alla base dei successi di movimenti di ogni genere tesi a modernizzare la società, migliorare la convivenza, affermare diritti.
A maggior ragione potrebbe essere alla base anche di possibili futuri successi di istituzioni e forze politiche che ritengano giusto rigenerare un equilibrio nel sistema di potere che si è formato nel mondo dei media digitali. Sta di fatto che le grandi piattaforme conoscono molto bene il potere del flusso del grande fiume di informazioni, innovazioni, trasformazioni degli algoritmi e delle tecnologie. L’equilibrio dei poteri è, oggi più che mai, l’equilibrio della conoscenza.
Articolo pubblicato su Nòva il 6 settembre 2020