Lettere sull'innovazione. Etica dell'immagine

Caro De Biase
Una delle tendenze del nostro tempo sta nel fatto che ogni cosa può trasformarsi in uno specchio, capace di riflettere la nostra immagine. Non si tratta di usare questa o quella app del nostro smartphone per soddisfare crescenti tendenze narcisistiche. Non si tratta d’indulgere all’ennesimo selfie. È in atto qualcosa di più profondo e significativo. Viviamo nell’epoca in cui tutto è diventato immagine, immagine reale, e il reale si è mimetizzato.
Ogni cosa infatti, nel mondo quotidiano, sembra fatta a nostra immagine e somiglianza. E, viceversa, anche noi tendiamo a uniformarci alle cose, anche noi ci modelliamo su dispositivi che sembrano offrire prestazioni migliori delle nostre. Ciò risulta evidente in particolar modo nei vari ambienti a cui Internet dà l’accesso.
Che cosa accade infatti in questi ambienti? Accade qualcosa d’inedito, che trasforma completamente il nostro modo di concepire le immagini e il rapporto con esse. Già l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, tra ‘800 e ‘900, aveva comportato una prima trasformazione del nostro modo di vedere le cose. Pensiamo alle possibilità aperte dalla fotografia o dal cinema. Con la rete, però, si compie un passaggio ulteriore: l’immagine acquisisce una sua autonomia, s’insedia in specifica realtà, diventa attraente e si trasforma in un modello per l’essere umano.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione rispetto al passato. In precedenza l’immagine era solitamente concepita come una copia, che rinviava a un originale. Ora la copia si svincola dal modello e diviene indipendente. Fra modello e copia, cioè, è venuta meno ogni relazione gerarchica. Ambedue stanno sullo stesso piano e possono scambiarsi i ruoli.
Di conseguenza, senza più distinzione fra modello e copia, tutto risulta reiterabile e riproducibile, all’infinito. Tutto è modello e copia di se stesso. Tutto risulta sostituibile con tutto, indifferentemente.
Si tratta di una situazione che merita di essere approfondita. Il rischio è che si riproponga un atteggiamento d’immediato rigetto, in contrasto con l’uso e l’abuso delle immagini di cui quotidianamente facciamo esperienza. Il rischio è quello di cedere all’iconoclastia, al desiderio che ogni immagine sia distrutta.
Di questi temi parla il numero in uscita di «Sens public» (sens-public.org), la rivista dell’Université de Montréal coordinata da Marcello Vitali-Rosati, che ospita sull’argomento, fra gli altri, un importante contributo di Pierre Lévy. Dai saggi emerge comunque un’indicazione ben precisa. Invece di rinunciare allo specchio delle immagini, dobbiamo ripensare le immagini stesse su di un piano etico.
Abbiamo bisogno insomma di una rinnovata etica dell’immagine. Dobbiamo riappropriarci del senso della rappresentazione. Dobbiamo cioè capire che, anche se non sempre siamo più i modelli per le varie rappresentazioni, le immagini hanno comunque senso solo per noi, e siamo solo noi che le possiamo valorizzare e decodificare.
Adriano Fabris
Caro Fabris
Concordo. E aggiungo una prospettiva. In un periodo in cui migliaia di persone che, lavorando online per qualche centesimo a operazione, arricchiscono le fotografie di etichette per aiutare le intelligenze artificiali a riconoscere quello che le immagini mostrano, l’utilizzo delle fotografie sfida i sistemi sociali a grandi salti di qualità etici. Non c’è dubbio che il riconoscimento delle immagini da parte dei computer sarà fondamentale, per esempio, per la sicurezza degli umani in città nelle quali circoleranno tram senza guidatore. Nello stesso tempo quelle capacità dei computer potranno essere usate per aumentare la sicurezza o per eccedere nei controlli: un’interpretazione etica della sorveglianza può rassicurare le persone, ma un’interpretazione dominata da una volontà di potere può chiudere la società in un Panopticon dorato ma non meno limitante per la libertà.
Caro De Biase
A proposito dell’ottima lettera di Paolo Monge riguardo l’inserimento in azienda di neolaureati vorrei aggiungere un suggerimento: fare come in Germania.
Sono infatti piuttosto scettico sulla possibilità che possa essere effettivamente la scuola a dare ai ragazzi quelle capacità “umane” a cui lei fa giustamente riferimento. Mentre invece l’ambiente lavorativo stesso spesso le concede diciamo “con generosità”.
Non sarebbe forse il caso di immaginare delle esperienze concrete in ambiti lavorativi già all’interno stesso del piano formativo?
Marco Cavicchioli
Nòva
L’evoluzione dell’intelligenza artificiale. E le crescenti capacità dei robot che lavorano
Rubrica pubblicata sul Sole 24 Ore il 7 ottobre 2017