Marco Arment ha scritto qualche giorno fa una nota sul suo blog che è stata commentata a lungo in rete. Perché riguardava la sua esperienza su una questione che interessa tutti gli editori, i giornalisti e i programmatori: vendere le applicazioni per iPhone e iPad oppure offrirle gratuitamente affidandosi alla pubblicità? Marco Arment è un ragazzo simpatico, modesto e molto ragionevole, che ha scritto Instapaper, facendo più o meno tutto da solo, e ne ha proposto al mercato una versione gratuita e una a pagamento (a poco meno di 5 dollari). Ma recentemente ha tolto dall’App Store la versione gratuita: e ha scoperto che le vendite della versione a pagamento aumentavano abbastanza da coprire il mancato fatturato pubblicitario della versione gratuita.
Instapaper è considerata una delle più significative novità apparse di recente nell’ecosistema dell’informazione digitale: non produce contenuti ma aggiunge un grande valore d’uso agli articoli che si trovano online. In pratica consente a chi ha giusto il tempo di consultare velocemente le notizie, dei giornali o altro, sul web, magari dal lavoro o col telefonino, di archiviare gli articoli che desidera leggere più tardi con calma e di ritrovarseli tutti ben impaginati quando ha il tempo di sedersi in poltrona. In effetti, secondo Hal Varian, l’economista di Google, le persone che leggono i giornali col pc o il telefonino sul web non dedicano in media più di 70 secondi a quei notiziari. Ma non perché non abbiano più alcuna voglia di approfondire: solo perché in quel momento non hanno tempo. Anzi: più leggono velocemente, più è probabile che trovino qualcosa che sentono il bisogno di approfondire. E l’applicazione di Marco Arment aiuta a soddisfare quel bisogno.
Ebbene: è mai possibile che la gente paghi 5 dollari per un software come Instapaper e non sia disposta a pagare nulla per le informazioni vere e proprie? Posto che è probabilmente più redditizio, sano e sostenibile un modello di business non fondato esclusivamente sulla pubblicità, si può ipotizzare che gli editori trovino in futuro un modo per far pagare i loro giornali anche nel contesto digitale?
Il caso di Instapaper è sottilmente pertinente. In fondo, anche gli editori dei giornali di carta non vendono le notizie: vendono una tecnologia comoda per accedere alle notizie. Il problema è che la tecnologia tradizionale è messa in discussione da quella digitale e gli editori sono raramente alla testa dell’innovazione da questo punto di vista: in genere la subiscono e perdono terreno sul mercato. Nel frattempo, molti altri soggetti producono informazioni e le mettono in rete pur non avendo un business editoriale, e quindi la posizione dei giornali come generatori di informazione è meno unica e difesa. Ma i giornali possono reagire: possono investire per produrre tecnologie migliori, per valore d’uso, interfaccia, sistema di pagamento, selezione delle informazioni, di quelle dei concorrenti, tentando nello stesso tempo di riqualificare l’unicità dei loro notiziari. Non si vede perché non dovrebbero riuscire.
Secondo lo studio realizzato dalla Bain & Company, nei paesi sviluppati, i consumatori che comprano informazione in digitale sono tra il 10 e il 20 per cento della popolazione. Di questi, tra il 27 e il 42 per cento comprano informazioni che riguardano lo sport e l’economia, le inchieste originali e le notizie locali. Perché a quei tipi di informazione attribuiscono unicità e valore. Intanto, gli strumenti a disposizione dei lettori per accedere alle notizie si vanno raffinando ed è chiaro che mentre ampie percentuali di popolazione hanno quasi ovunque nei paesi sviluppati un accesso a internet con il computer, anche gli smartphone si diffondono mentre i tablet, prevede la Bain, sono destinati a raggiungere, tra il 2015 e il 2020, una quota del tra il 15 e il 20 per cento della popolazione dei paesi sviluppati. Questo significa che investire sul miglioramento delle interfacce di utilizzo e accesso ai giornali e sulla unicità dei contenuti è la strada per ricostruire un modello di business e giocarsi il successo sul mercato. Anche rigenerando il modello a pagamento.
Una ventina d’anni fa, la tv era gratis e l’idea di vendere l’accesso ai contenuti televisivi era impensabile: oggi milioni di persone pagano 20 o anche 40 euro per guardare la tv, nella sua forma satellitare. Oggi, i contenuti dei giornali online sono gratis e l’idea di venderli è piuttosto inconsueta: ma sarà sempre così? Come dimostra la Bain, certi tipi di contenuti si possono vendere. E come dimostra Instapaper, le applicazioni che offrono un vero valore d’uso si possono vendere. La strada degli editori e dei giornali passa da queste osservazioni. E da una buona dose di ricerca, sperimentazione e innovazione.
I giornali sono applicazioni. Gli autori, i designer, i programmatori non lo sono. Il business dell’informazione è una sintesi di tecnologia e umanità. E gli editori possono ridefinire quella sintesi.