La scossa per il venture capital in Italia

Un miliardo sul venture capital. Ovvero, quanto basterebbe all’Italia per avvicinare, se non a raggiungere, gli altri grandi Paesi europei. È ciò che si propone di mobilitare la recente manovra, che dedica un intero capitolo al finanziamento dell’innovazione e prevede un insieme di misure che aumentano di un ordine di grandezza il capitale disponibile per investimenti in imprese innovative. Si facilitano i business angel che investono nei primi momenti della vita delle startup, si aumentano i fondi potenzialmente allocati nel venture capital che accelera la crescita delle aziende, si rende più conveniente l’acquisizione di startup da parte di aziende esistenti che in questo modo innovano sé stesse e offrono una via d’uscita al capitale che le ha finanziate. È un cambiamento di proporzioni tali da poter segnare una svolta nella storia dell’ecosistema innovativo italiano, che raggiunge così un livello di risorse paragonabile a quello degli altri grandi paesi europei. E giunge dopo che il mercato già da solo era riuscito a investire 598 milioni nelle startup italiane nel 2018, l’81% in più rispetto all’anno precedente, secondo il Politecnico di Milano.
La grande trasformazione economica fondata sulla conoscenza offre enormi opportunità e genera grandi rischi. Per competere non c’è alternativa all’accelerazione dell’innovazione: non solo adeguando al nuovo contesto le aziende esistenti, ma anche creando imprese capaci di sperimentare tecnologie, prodotti, servizi, modelli di business nuovi. Nel 2012, il governo aveva aperto la strada per la nascita dell’ecosistema delle startup, con un pacchetto di misure integrato per facilitare le pratiche di avvio e chiusura delle imprese, per rendere più flessibili i rapporti di lavoro, ridurre i costi fiscali degli investitori, aumentare la qualità degli acceleratori e incubatori. Gli effetti di quelle misure non sono mancati: 9mila imprese innovative si sono affacciate sul mercato in Italia e hanno aperto una strada. Ma un nodo essenziale restava irrisolto. Mancavano i capitali. Niente di nuovo in un paese che ne ha fatto abbondantemente a meno, come molti lamentano. Ma che nel sistema delle startup era particolarmente negativo: come mostra l’ultimo studio Unioncamere, le startup innovative hanno una propensione all’investimento sei volte superiore alle altre società di nuova costituzione. Innovano facendo largo uso di tecnologie avanzate e con prodotti che spesso spostano la storia della tecnologia.
Uno studio della Casaleggio & Associati, uscito nel febbraio del 2018, aveva messo in luce l’arretratezza italiana in materia e l’opportunità di correggere il tiro con misure che prendessero in considerazione l’intera filiera: “pre-seed”, “seed”, “early stage”, espansione, “later stage”, con investimenti che vanno da 30mila euro a oltre 5 milioni. Lo studio mostrava l’importanza dell’impatto del venture capital per l’occupazione, l’innovazione, la crescita.
Le misure introdotte nella legge di bilancio e annunciate con la legge sulla semplificazione generano cambiamenti strutturali nella finanza per l’economia reale. Le reazioni degli operatori sono positive. «Le misure dimostrano una visione d’insieme da giudicare in modo molto favorevole» commenta Anna Gervasoni, direttore generale Aifi. «Finisce la scarsità di capitali per il venture capital. E l’insieme della manovra è ben congegnato» osserva Andrea Di Camillo, fondatore di P101. «È una decisione importante, che serviva» dice Gianluca Dettori, fondatore di Primomiglio.
Le nuove norme attendono i decreti d’attuazione. Ma sulla carta il cambiamento è enorme. Si riconoscono i business angel – che scoprono le startup interessanti e ci investono alcune decine di migliaia di euro – rendendo possibile la connessione con fondi dedicati come Caravella, aumentando l’esenzione fiscale al 40% per i loro investimenti in startup e facilitando gruppi di investimento fino a 25 milioni senza costi regolamentari particolari, con strumenti chiamati Sis. Si abilita lo stato a investire in venture capital e si crea per questo scopo una voce di bilancio del Mise con 90 milioni nei primi tre anni (110 fino al 2025). Alla stessa voce arriva il 15% dei dividendi delle aziende pubbliche, il che può valere 3-400 milioni all’anno. Si stabilisce che il 3,5% della raccolta dei Pir vada in fondi di venture capital in cambio di esenzioni fiscali. Anche le casse previdenziali ottengono esenzioni del 10% se investono il 5% in venture capital. Si istituisce il Fondo Nazionale per l’Innovazione, alla Cdp, che assorbe Invitalia Ventures con i suoi 440 milioni in fondi e aggiunge altrettanto, per creare un fondo di fondi, ma forse anche investire direttamente in startup. Si stabilisce un’esenzione fiscale del 50% per le aziende che acquistano una startup e la tengono per tre anni.
Per Dettori c’è in ballo almeno un miliardo all’anno, quasi cinque volte le risorse raccolte (e solo in parte utilizzate) nel 2017. Conseguenza: più operatori, più investimenti, più concorrenza e più collaborazione. Di Camillo aggiunge: «Il denaro pubblico è necessario per far partire il mercato. Con gli investimenti crescerà l’ecosistema, migliorerà la cultura aziendale, si moltiplicheranno le opportunità, si attireranno altri capitali dall’estero. Così il mercato crescerà in maniera organica». E Dettori: «È quello che è successo negli Usa quando si è data la libertà ai fondi pensione di entrare nel venture capital. Il mercato è cresciuto di un ordine di grandezza. Ed è partita Silicon Valley».
I regolamenti di attuazione non ci sono ancora. E gli operatori si fanno sentire. Qualche problema di interpretazione c’è per i Pir. Assogestioni ricorda che le nuove norme riguardano solo quelli che partono dal 2019. E nota come l’investimento in venture capital possa essere meno liquido dell’investimento in aziende quotate all’Aim, per esempio. Il che peraltro è ripagato dall’esenzione fiscale. Altro tema aperto è la governance del fondo guidato da Cdp, che ha già una partecipazione essenziale nel Fondo Italiano d’Investimento: ne userà la competenza o creerà una struttura ulteriore? E del resto il Mise gestirà in autonomia la sua nuova voce di bilancio o l’affiderà alla Cdp? Il dubbio sull’intervento diretto dello Stato nelle startup resta. E si aggiunge alle attese per le prossime decisioni normative. Ma non cambia il giudizio complessivo sulla manovra.
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Racconta Massimiliano Magrini, co-fondatore di United Ventures, che la manovra per il venture capital è nata dall’ascolto degli operatori da parte del governo e genera un salto di qualità, che porta l’Italia al livello della Francia. Ai modelli internazionali di venture capital, Magrini aveva dedicato un capitolo del suo libro “Fuori dal gregge” (Egea 2018) mostrando come ovunque sia stato necessario un intervento pubblico per far partire il mercato della finanza orientata all’innovazione. «La manovra capitalizza un ecosistema già vitale» dice Magrini. «E apre la strada a una nuova interpretazione della politica industriale che si fa con “spinte gentili” e un po’ di soldi». Una politica industriale per la quale lo stato si avvale della competenza degli operatori privati, non entra direttamente negli investimenti, ne nelle aree a fallimento di mercato.
Articolo e box pubblicati sul Sole 24 Ore del 27 gennaio 2019