Guidati da un’imprevedibile politica, i tecnici spaziali americani vanno avanti con i programmi e progettano il ritorno sulla Luna, anche in preparazione di un successivo lancio verso Marte, tra forse una quindicina d’anni. Hanno la navicella Orion, devono scegliere il super razzo vettore, immaginare il sistema di allunaggio e molto altro. L’Europa ha un ruolo chiave nella costruzione di Orion in quanto il modulo che svolge il ruolo di propulsore, fornitore di energia elettrica, acqua, aria, controllo termico è progettato dall’Agenzia spaziale europea (Esa) ed è prodotto dall’Airbus che a Brema integra le componenti provenienti da aziende di tutta Europa.
Nella tecnologia spaziale, ancor più che in ogni altra grande filiera dell’ingegneria globale, è necessaria una collaborazione internazionale straordinariamente efficiente. La scelta americana di un modulo di servizio europeo al quale affidare la vita degli esploratori umani dello spazio, di per sé, è un attestato di rispetto per l’industria e per la scienza del Vecchio Continente. Ma è anche un episodio di un tema fondamentale per lo sviluppo tecnologico: la cooperazione.
E questa a sua volta va pensata, progettata, gestita e guidata, il che richiede a sua volta innovazione in una forma di design dei servizi estrema, che deve dimostrarsi efficace per coordinare attività che – come è tipico delle ricerche spaziali – nessuno ha mai fatto prima. Le mitiche operazioni che i centri di controllo delle missioni spaziali devono “improvvisare” quando incontrano problemi inattesi, si replicano routinariamente a terra nel lungo periodo di preparazione, che fa parte integrante delle sue ipotesi di successo.
All’Esa, questa forma di design dei servizi si svolge nella “concurrent design facility”. È una stanza ricolma di schermi e computer, network e collegamenti di ogni genere, nella quale peraltro i tecnici e gli scienziati specializzati in diverse discipline arrivano con le loro apparecchiature per discutere e confrontarsi, seguendo un metodo che si dimostra molto efficace. «Gli specialisti che entrano in questa stanza portano tutta la loro conoscenza di quello che si è già fatto e di quello che si farà nella loro disciplina» racconta Ilaria Roma che si occupa di “concurrent design” fin dalla tesi di laurea e che è riuscita a farsi strada, con entusiasmo, proprio nel centro di ricerca che riconosce meglio la necessità di questa tecnica, all’Estec di Noordwijk dell’Esa: «Partono dalla valutazione della complessità di un progetto proiettato nel profondo futuro, in relazione ai vincoli di budget e di tempo, fanno delle assunzioni sulla risolvibilità di alcuni problemi specifici e proseguono immaginando tutte le conseguenze. Il loro percorso di ricerca è iterattivo, fatto di ipotesi, confronti di alternative, prototipi, errori, ripensamenti e ripartenze». E ovviamente si affrontano anche momenti di difficoltà psicologica. Il concurrent design tiene conto anche di questi aspetti umanistici. Questa tecnica è una delle forme con le quali la ricerca spaziale genera vantaggi oltre i limiti delle sue attività specifiche. Perché è una “scienza delle conseguenze” e, insieme, una nuova incarnazione del design per il futuro. Non serve solo agli specialisti dello spazio. Ma a tutti gli umani che abbiano la consapevolezza di dover realizzare un grande progetto insieme.
Articolo pubblicato su Nòva il 28 aprile 2019