La teoria della complessità, verrebbe da dire, è un argomento difficile. Innanzitutto, perché la complessità esiste molto più nella pratica che nella teoria. In secondo luogo, perché implica un modo di pensare aperto, lontano dalle banalizzazioni, orientato a guardare al lungo termine e alla profondità dei fenomeni, oltre le apparenze lineari e dentro le coevoluzioni meno ovvie. Il che è più facile a dirsi che a farsi.
Un esempio? Consideriamo una domanda apparentemente semplice: la moltiplicazione delle fotografie resa possibile dalla tecnologia digitale ha conseguenze positive o negative? Kate Eichhorn ne parla introducendo il suo bellissimo libro: “The end of forgetting. Growing up with social media” (Harvard University Press, 2019). La possibilità di fotografare senza limiti i bambini e i giovani, di condividere le foto online, di connettere le persone a distanza grazie alle immagini digitali dei familiari e degli amici è stato un meraviglioso arricchimento della società. Ma ha anche costruito una gabbia di memorie che non scompaiono mai e che in qualche misura mettono in discussione il passaggio del tempo: «Si può mai superare l’infanzia se la sua immagine persiste indipendentemente dalla volontà dei soggetti fotografati?» si domanda Eichhorn.
Come si è visto nella pluridecennale narrazione dello sviluppo di internet, una tecnologia ecosistemica non si comprende senza consapevolezza della complessità. Ma la banalizzazione è una tentazione troppo forte. E questo spiega perché nell’analisi della rete digitale le incomprensioni hanno superato le conoscenze sostanziate e solidamente convincenti per tutti. Le incomprensioni logicamente si sono annidate soprattutto nelle culture estremiste: la convenzionale banalizzazione dei molti che hanno detto che internet “cambia tutto” e lo scettico ostruzionismo di chi ha visto nella tecnologia più le conseguenze negative sull’esistente che le opportunità positive sulla progettazione dell’avvenire. Ma anche per chi coltiva atteggiamenti meno estremi, la complessità nasconde conseguenze indirette che emergono alla coscienza in ritardo rispetto ai fatti.
Le fotografie, appunto, che molti ricominciano a stampare e a conservare in album cartacei per goderne in modo consapevole del tempo che passa, oggi sono entrate in un nuovo contesto: sono diventate dati che alimentano un’economia totalmente separata dalle relazioni umane implicate da quelle immagini e che si basa sullo sviluppo di una tecnologia come l’intelligenza artificiale. Che a sua volta non si comprende senza un approccio serenamente consapevole della complessità. Chiara Sottocorona ne parla in un libro intitolato “A.I. Challenge. Amica o nemica? Come l’intelligenza artificiale cambia la nostra vita” (Hoepli 2019). Sottocorona ha fatto ricerca e giornalismo sulla tecnologia digitale fin dall’inizio dell’esplosione di internet e non ha mai cessato di studiare: questo la rende una voce autentica e non unilaterale. La sua ricostruzione della vicenda dell’intelligenza artificiale porta il lettore attraverso le sue dinamiche immediate, per arrivare a porre le domande umanamente più rilevanti, dai diritti umani alla polarizzazione economica e cognitiva. Se l’attualità è soprattutto americana e asiatica, la prospettiva potrebbe essere prevalentemente europea. Purché a quelle domande umanamente rilevanti si dia l’importanza che meritano.
Articolo pubblicato su Nòva il 1 settembre 2019