Negli ultimi anni, una serie di risultati elettorali sorprendenti per gli istituti di ricerca demoscopica e devastanti per il cosiddetto establishment, hanno finalmente dato luogo a una riflessione sull’impatto delle tecnologie digitali nel processo democratico. Si è così passati direttamente dall’utopia alla distopia. Restando nell’errore.
In effetti, per molto tempo, il dibattito era stato confinato in ristretti circoli di appassionati dell’ideologia tecnologica – persone che ne parlano più che farla – i quali, aderendo alla teoria secondo la quale ogni nuova versione della tecnologia è migliore della precedente, la generalizzavano anche all’analisi politica sostenendo che le reti digitali avrebbero fatalmente migliorato anche il processo democratico. L’effetto era molto adatto a un contesto ideologico che chiedeva totale libertà per il capitalismo finanziario: e non a caso l’innovazione democratica che ne emergeva era più teorica che pratica. Di fatto, la critica è emersa dopo la crisi della finanza del 2007 e dopo l’avvento dell’internet mobile iniziato nello stesso anno. A quel punto, il dibattito ha lasciato trasparire preoccupazioni crescenti: prima per lo strapotere della sorveglianza esercitata da alcuni stati, come ovviamente la Cina ma anche gli Usa, attraverso per esempio l’Nsa, poi per l’esplosione della disinformazione in rete che è stata subito collegata alle strategie aggressive di alcuni stati, tra i quali spesso si citano la Russia, l’Iran e la Corea del Nord.
Si tratta di un dibattito che probabilmente rispecchia l’estrazione culturale delle persone che lo portano avanti. Un piccolo fatto accresce il sospetto: secondo una ricerca di Adl Consulting, il concetto di democrazia digitale è noto in Italia agli studenti di scienze poliche ma non agli studenti di ingegneria. Si discute del rapporto tra rete e democrazia tra chi è interessato a fare politica più che a fare tecnologia. E poiché la rete ha evidenziato il potere delle bolle di interessi convergenti – le cosiddette echo-chamber – spesso il dibattito politico non percola nel dibattito ingegneristico.
Si può immaginare che tutto questo possa cambiare.
È necessario perché in effetti non si riuscirà ad affrontare la questione senza prendere atto del fatto che il design della tecnologia che si usa nel processo democratico ha una pesante influenza sul discorso pubblico, come ha detto David Cuartielles, un designer di piattaforme, tra le quali Arduino, alla recente edizione di Decode a Torino. I valori e la consapevolezza di chi costuisce la tecnologia si incarnano nella tecnologia stessa. Se questa è fatta per raccogliere pubblicità deve essere essenzialmente in grado di massimizzare la capacità di influenzare le opinioni degli utenti. Se questa deve servire allo sviluppo di un dibattito informato e rispettoso della diversità delle opinioni e degli interessi, non può avere come centro la conquista dell’attenzione ma piuttosto la qualità dell’informazione. E il controllo dovrebbe essere non tanto in mano alle centrali di potere finanziario ma alle comunità: le città, i quartieri, le cooperative e le associazioni, in effetti, in Europa si stanno mostrando in grado di sviluppare una capacità di iniziativa nella costruzione delle piattaforme utili al dibattito pubblico e, a quanto pare di leggere del rapporto in materia realizzato da ReImagine Europa, possono trovare un supporto sempre più attento della Commissione Europea. Se ne continuerà a discutere a fine mese, nel corso di Milano Partecipa.
Articolo pubblicato su Nòva il 10 novembre 2019