La tecnologia come problema e insieme soluzione

Da un articolo uscito su Nòva il 14 marzo 2021 e su 24+ intitolato: “Nelle sfide sistemiche, la tecnologia è problema e insieme soluzione” – Gli strumenti e le macchine sono serviti agli umani per crescere. Questo ha generato difficoltà a ogni altra specie vivente. E agli stessi umani. Che ora possono trovare soluzioni. Usando nuove macchine e nuovi strumenti. Il successo è possibile ma nessuno ci riesce da solo
La tecnologia consente alla specie umana di occupare il pianeta. Nella premessa al rapporto “The economics of biodiversity”, David Attenborough, naturalista britannico, ha fatto notare quanto questo riduca lo spazio per tutti gli altri animali: gli umani e il bestiame che essi allevano per mangiare costituiscono il 96% della massa di tutti i mammiferi del pianeta, mentre il 70% di tutti gli uccelli oggi viventi sono pollame destinato alle tavole degli umani.
Evidentemente, tra le conseguenze della tecnologia, oltre al progresso, ci sono problemi giganteschi. Con la scomparsa della biodiversità sparisce la ricchezza della natura che fa fiorire e resistere la vita sulla terra, mentre il clima si sconvolge e si distruggono interi ecosistemi. Tutto questo non è un disastro solo per la natura, ma anche per la cultura: perché senza un ambiente ricco di vita, si esaurisce anche la specie umana. Se questo è vero, che cosa può servire per risolvere il problema? La risposta: la tecnologia. E siamo al punto di partenza. O no?
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Bill Gates nel suo recente libro su come evitare un disastro climatico offre un esempio di come si ragiona in materia. Dice Gates che ovviamente il problema climatico è complesso ma è convinto che si possa risolvere. Sostiene che gli umani hanno due delle tre condizioni necessarie: hanno l’ambizione sulla scorta di ciò che chiede un movimento globale guidato da giovani appassionati e hanno gli obiettivi precisi, grazie ai leader del mondo che li hanno stabiliti. «Ora abbiamo bisogno della terza componente: un piano concreto per realizzare gli obiettivi». Prima viene la consapevolezza, frutto di passione e ragione, poi si crea la tecnologia e l’organizzazione per progredire.
L’accumulazione di consapevolezza, se avviene, è un fatto di importanza capitale. Ma funziona soltanto se diventa patrimonio comune, conoscenza generalizzata, memoria unificante per la società. Le grandi sfide ambientali, sociali, culturali che l’umanità deve fronteggiare non si risolvono con un colpo di accetta o per volontà di una sola parte in gioco. Occorre un equilibrio tra diversi criteri di giudizio. E questo avviene solo superando l’opposizione dei pregiudizi. E degli interessi particolari. L’opposizione tra chi è convinto che la regolamentazione statale freni l’innovazione e chi sostiene che l’autoregolamentazione delle aziende non garantisce la loro efficacia nel raggiungimento di obiettivi socialmente importanti, va probabilmente superata. Come?
Facendo un altro salto di consapevolezza. Se si guarda alla capacità delle aziende di realizzare progresso si può davvero restare favorevolmente stupiti. Per un po’. Poi si nota che quando le aziende diventano davvero potenti, la loro volontà di cambiare le cose in nome del bene comune, spesso, diminuisce. Le compagnie petrolifere hanno frenato a lungo la crescita della consapevolezza intorno alle conseguenze climatiche dell’uso degli idrocarburi nella generazione di energia. E anche quando dichiarano di avere intrapreso una strategia di sviluppo orientata alla sostenibilità si trovano a decidere poi di aumentare comunque la produzione di petrolio.
Allo stesso modo un’azienda come Google consapevole delle conseguenze potenzialmente negative dei pregiudizi contenuti in certe forme di intelligenza artificiale, quando deve scegliere se ascoltare il suo comitato etico o proseguire senza troppi scrupoli a crescere e conquistare mercati, alla fine non ha dubbi: licenzia persone come Timnit Gebru e Margaret Mitchell – o per esprimersi nel linguaggio ufficiale, le “lascia andare via” – che esprimevano i loro dubbi etici sull’intelligenza artificiale e, secondo una quantità di osservatori e testimoni intervistati in diverse inchieste giornalistiche, propone ai suoi esperti della materia di fare scienza ma non trasparenza.
La logica della conservazione del potere, peraltro, coinvolge a maggior ragione la politica. A quanto pare, quando si deve conquistare il potere si innova di più che quando lo si deve difendere.
Tutto questo si corregge combattendo l’autoreferenzialità. Chi decide in azienda deve essere costretto ad ascoltare chi decide in politica, o nelle associazioni. Chi decide in politica deve ascoltare quello che avviene nel mondo. La Commissione Europea – per esempio, al posto dell’autoregolamentazione delle piattaforme digitali – vuole introdurre una forma di co-regolamentazione, rifuggendo saggiamente dal tentare di avviare un nuovo dirigismo: lo dimostra la proposta del Digital Services Act.
Il World Economic Forum propone il capitalismo degli stakeholder, nel quale le aziende fanno l’interesse degli azionisti ma anche di tutti i cittadini del mondo coinvolti dalle loro attività. Le università moltiplicano gli sforzi per pensare non solo al loro mestiere primario – ricerca e didattica – e sviluppare la terza missione che alla fine è il servizio agli stakeholder. C’è un consenso diffuso sulla necessità di pensare in chiave sistemica. Non resta che imparare a farlo.