Jennifer Doudna e l’opportunità problematica dell’editing genetico

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Il dna si modifica abbastanza facilmente col Crispr-Cas9. Può servire a raggiungere vari obiettivi. Migliorare le rese e ridurre le emissioni nell’allevamento. Ridurre il fabbisogno di acqua o pesticidi nell’agricoltura. Curare malattie genetiche. Oppure “migliorare” il corpo umano. La Commissione europea studia come trattare questa tecnologia dal punto di vista della policy, del diritto e dell’etica, emerge una domanda di fondo. Qual è il criterio per decidere che cosa fare e che cosa non fare con questa tecnologia?

Jennifer Doudna, che insieme a Emmanuelle Charpentier ha inventato il Crispr-Cas9 nel 2011 vincendo il Nobel per la chimica nel 2020, qualche giorno fa ha risposto a quella domanda. «È difficile dirlo» ha ammesso. «Il Crispr-Cas9 è una tecnica per generare mutazioni come quelle che si verificano in natura, anche se lo fa in modo più veloce e con un intento. Penso che il criterio per considerare ammissibile una sua applicazione possa essere che si tratti di qualcosa che si verificherebbe anche in natura». Su almeno un punto ha ragione: è difficile rispondere. E anche quel criterio – peraltro profondo – può mostrare qualche difficoltà interpretativa.

Del resto non è semplice capire che cosa sia naturale, distinguendolo dall’artificiale, vista la commistione inestricabile tra la dinamica evolutiva della vita sulla Terra e l’impatto umano. Il libro di Menno Schilthuizen, “Darwin va in città” (Raffaello Cortina 2021), mostra come la “natura” e l’evoluzione non cessino di funzionare quando entrano nel contesto urbano. Anche la città è un ecosistema, nel quale le specie evolvono secondo la propria natura, ma non è un ecosistema naturale, nel senso di indipendente dall’intervento umano. Può essere sempre più difficile valutare la qualità di tale impatto. Conosciamo criteri generali: se l’intervento umano oggi riduce le emissioni di CO2 è positivo; se fa diminuire la biodiversità è negativo.

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