Governance dell’innovazione

Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore, domenica 27 novembre 2022


Il nuovo ministro dello Sport, Andrea Abodi, si è insediato velocissimo negli uffici che erano dell’ex ministro per l’Innovazione, Vittorio Colao, a Largo Pietro di Brazzà. Il nuovo governo non ha un successore di Colao, ma ha nominato Alessio Butti sottosegretario all’Innovazione tecnologica: per ora si è accontentato dell’ufficio che gli ha prestato il direttore del suo dipartimento. Che cosa farà? Colao governava la parte di Pnrr destinata alla transizione digitale su diverse missioni, dalla pubblica amministrazione alla sanità, dal turismo alla cultura, dall’agricoltura alla logistica, dall’istruzione al lavoro: circa 60 miliardi secondo gli Osservatori del Politecnico di Milano. Per ora, dicono i bene informati, Buti si confronta con il ministro delle Infrastrutture sul ruolo dello stato nella rete delle telecomunicazioni. Vedremo quali saranno le sue deleghe.

Ma a che serve il ministro? La storia dei ministri per l’innovazione in Italia comincia con Lucio Stanca, nel 2001: un’esperienza che ingiustamente viene ricordata soprattutto per le polemiche sull’avvio del portale italia.it, ma che ha portato nel governo la sensibilità per i temi digitali come leva di sviluppo. Ai successori, Luigi Nicolais e Renato Brunetta, è stato chiesto di concentrarsi sulla modernizzazione della pubblica amministrazione. Il governo tecnico di Mario Monti non ha avuto un ministro per l’innovazione, ma con Corrado Passera ha realizzato l’importante riforma che ha aperto la strada allo sviluppo delle start up. I governi di Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni hanno affidato i progetti digitali ai commissari: i manager Francesco Caio per Letta e Diego Piacentini per Renzi e Gentiloni, con il supporto dell’imprenditore Paolo Barberis. Senza ministro, si sono fatte cose importanti, dallo Spid all’anagrafe nazionale e a PagoPa. Il ministro per l’innovazione è tornato invece con la nomina di Paola Pisano nel secondo governo guidato da Giuseppe Conte. Mario Draghi ha poi ampliato i compiti di quel ministero, come detto, per il Pnrr. Queste progettualità hanno tempi molto più lunghi di quelli di un tipico governo italiano. Tutto era partito, in fondo, dall’azione di Franco Bassanini, avviata con il primo governo di Romano Prodi. Di quell’esperienza, Bassanini ricorda le grandi ambizioni e i forti apprezzamenti, ma anche la necessità di fare andare la digitalizzazione di pari passo con la semplificazione normativa e burocratica. Ci vuole tempo ed energia per questo genere di progetti. 

Ci sarà questo spirito anche senza un ministro dell’innovazione? «Che ci sia o no quel ministro, qualcuno fa la politica del digitale. Il problema è capire se è governata o no. Si vedrà se il sottosegretario ha abbastanza influenza sul presidente perché il digitale sia nell’agenda del consiglio dei ministri», dice Paolo Coppola, esperto informatica pubblica, ex deputato per il Pd, autore di “Più digitale, meno corruzione, più democrazia” (Maggioli 2022). 

Il Pnrr dovrebbe aiutare. Per Alfonso Fuggetta, ceo del Cefriel «nel Piano ci sono la volontà e le risorse, ma mancano la chiarezza degli obiettivi e degli strumenti. In un paese nel quale mancano soprattutto le competenze». Walter Ruffinoni, ceo di Ntt Data, lo conferma: «Entro il 2026 serviranno 300 mila persone da assumere nell’informatica. Se non si accelera con la formazione si rischia di trovarne un terzo». Anche per questo Ruffinoni dice che occorre spingere sull’inclusione: «Più donne interessate alle materie tecniche, più opportunità per le persone competenti che risiedono al sud o che ci sono tornate dopo la pandemia, più assunzioni di giovani».

Ma quali sono le riforme da portare avanti? Per Coppola la priorità è chiara: «È tempo dello switch off all’interno della pubblica amministrazione: fare tutto online». Un’amministrazione più efficiente, più snella, pensata come infrastruttura abilitante per lo sviluppo. E la policy può fare molto per unire i puntini: l’innovazione delle aziende esistenti, la nascita delle start up, l’accelerazione della ricerca e la sua connessione all’industria. Mattia Corbetta, analista dell’Ocse, suggerisce tre linee prioritarie: «Ridurre gli squilibri territoriali e di genere nella creazione di imprese innovative; aggiungere agli incentivi per la nascita di start up il sostegno alle scale up».

In effetti, Carlo Purassanta, manager internazionale e autore de “Lo slancio decisivo” (Egea 2022) suggerisce si innalzare le ambizioni delle aziende digitali italiane ed europee: i dati consentono la crescita accelerata delle imprese che li gestiscono con modelli di business adeguati. Il che implica nuove fonti di investimento. Per Luigi Capello, ceo di LVenture, gli investimenti nelle start up stanno raggiungendo una massa consistente ed è il momento storico adatto per incentivare gli investimenti del risparmio italiano nelle imprese innovative. 

Ma non si tratta di imitare Silicon Valley, che tra l’altro attraversa una sua crisi, secondo Francesco Cicione, ceo di Entopan: «Il contributo originale delle migliori imprese italiane è nell’attenzione alla dimensione umana dell’innovazione». Con questo spirito Entopan partecipa come co-fondatore a Innovit, lo spazio italiano per l’innovazione italiana a San Francisco voluto dal ministero degli Esteri: «Non si fa innovazione con la speculazione finanziaria a breve termine, ma puntando all’impatto sociale e ai rendimenti di lungo termine». 

Anche per questo, la transizione digitale non appartiene a una parte politica ma deve essere indirizzata al bene comune di lungo termine dell’insieme della comunità.


Foto: “NYTimes: Regulation and Innovation since 1981 (Radial)” by blprnt_van is licensed under CC BY 2.0.