Dopo aver lasciato passare molto tempo prima di pensare ai contenuti dell’Expo, il paese si sta mobilitando sul senso di questa gigantesca manifestazione. E la domanda è sostanziale: che cosa resterà di questa esperienza? C’è chi pensa agli edifici e all’area che ospita l’esposizione, oppure c’è chi pensa alle ricadute in termini di maggiori esportazioni alimentari, o anche al miglioramento dell’accoglienza turistica delle città italiane, dalla mobilità alla ricettività. Ma il problema non riguarda solo l’Expo di Milano: al Bureau International des Expositions (Bie) si pongono la stessa domanda pensando all’insieme di queste manifestazioni. E secondo Chris Brooks, l’economista che sta lavorando a una ricerca su questo argomento per il Bie, quello che resta di un’Expo è soprattutto un fenomeno educativo e culturale.
È chiaro che la concentrazione per sette anni sulla progettazione di un evento che guarda al futuro in una chiave cosmopolita può essere un’esperienza culturale fondamentale, che connette le capacità di un territorio al pianeta in una visione di prospettiva che non può essere semplicistica. L’Expo di Milano ha perso un po’ di tempo ma ha la fortuna di occuparsi di un tema come l’alimentazione che interpreta il rapporto tra tradizione e innovazione in una chiave di sostenibilità, ambientale, sociale e culturale. Sfidando i visionari su un terreno fertile e comprensibile dalla maggior parte delle persone. È una grande premessa per un progetto la cui ricaduta principale sia l’educazione alla consapevolezza intorno alle conseguenze delle azioni che si compiono nel presente e che costruiscono il futuro. Alla giornata dedicata alla raccolta di idee per arrivare alla Carta di Milano, il senso di questa opportunità speciale era palpabile. Per un paese che coltiva un rapporto conflittuale con il proprio futuro come l’Italia è un’occasione eccezionale. Per fare, per una volta all’unisono, una grande figura.