Se vale la metafora dell’Oceano Blu per parlare dell’innovazione, ci deve essere anche l’equivalente del Capo di Buona Speranza, dove si scontrano le due immense correnti profonde: l’ossessione per l’efficienza e il taglio dei costi da una parte, la ricerca del valore aggiunto e dello spazio di mercato inesplorato dall’altra. I migliori business rischiano di trovarsi in difficoltà se arriva un competitore con un sistema di costi adatto a tagliare i prezzi. E solo un riconoscibile insieme di valori distintivi consente il successo di chi riesce a far pagare molto il proprio prodotto anche se costa molto meno. Il marchio sintetizza quei valori, che possono venire dalla tecnologia, dalla scienza, dall’immagine, dal significato incorporato nel prodotto. La barca che naviga in quelle correnti contraddittorie ha bisogno di una cabina di pilotaggio capace di interpretare la rotta a lungo termine e le difficoltà momentane, cogliendo ogni opportunità ma senza limitarsi a reagire. In quella cabina di pilotaggio ci deve essere la capacità di unire i puntini, di fare progetti, di vedere lontano e di fare attenzione ai dettagli. È una disciplina che sembra l’estensione del design: un genere di design che ha fatto un salto di astrazione, che va oltre il compito di definire il prodotto e si allarga alle sue relazioni con il contesto storico. Il Design Day che l’altro giorno ha fatto tappa all’ambasciata italiana a Berlino è stato un momento di riflessione spassionato e appassionante. Anche perché raccoglieva la sfida posta alla capacità progettuale dei designer dalla necessità di sviluppare un sistema economico e sociale attento alla sostenibilità. L’ambasciatore Pietro Benassi ha sostenuto l’iniziativa con il fatti e le parole, mostrando quanto le istituzioni possano aiutare la cultura dell’innovazione italiana nel mondo. I grandi designer e impreditori italiani che si presentavano alla comunità berlinese (vedi il Sole di venerdì 2 marzo) hanno trovato altri puntini da unire.
Articolo pubblicato su Nòva il 4 marzo 2018