Nei primi giorni della settimana trascorsa, a Parigi, l’Ocse ha raccolto politici, economisti, tecnologi, scienziati, giornalisti e altri testimoni del nostro tempo per dibattere intorno alle conseguenze del modello di sviluppo che, dal 2008, si è trasformato in un gigantesco punto di domanda. E per immaginare il modo giusto per riformarlo.
La nostra epoca, ha detto il segretario generale dell’Ocse Angel Gurría, vive una contraddizione: da una parte la moltiplicazione delle possibilità generata dall’accelerazione dell’innovazione tecnologica; dall’altra parte la polarizzazione tra chi riesce a stare al passo del progresso e chi resta indietro. Il dato sintetico – secondo il quale la metà della popolazione mondiale possiede meno dell’1% della ricchezza, mentre il 10% più facoltoso ne possiede l’85% – per quanto enorme non dice abbastanza sulla polarizzazione: in realtà, se si guarda alla dinamica dei fatti, la distanza culturale tra chi è capace di comprendere il sistema e chi non riesce a star dietro all’innovazione è crescente e ha conseguenze devastanti. Provoca l’erosione del ceto medio e l’ulteriore pauperizzazione degli esclusi dalle occasioni educative più adeguate: in pratica separa gli umani tra chi sa e chi non sa. E questo è strategico, considerando anche i cambiamenti nel mondo del lavoro studiati da Stefano Scarpetta che dirige la ricerca sul questo argomento all’Ocse: nei prossimi 15-20 anni, 14 posti di lavoro su 100 rischieranno di essere automatizzati e 32 su 100 saranno trasformati radicalmente dalla tecnologia, sicché solo i lavoratori educati adeguatamente sapranno affrontare positivamente il cambiamento. Ma, in questo contesto, il timore di perdere il lavoro è generalizzato e viene vissuto, ansiosamente, da un numero di lavoratori più elevato di quello che effettivamente sarà colpito. Non per niente, il barometro Edelman del 2019 dice che il 60% degli occupati nelle principali multinazionali dei 27 paesi considerati, Italia compresa, teme di perdere il lavoro a causa dell’automazione.
«Dobbiamo correggere queste dinamiche sbagliate e rispondere a questi timori. Dobbiamo costruire nuovi modelli di intervento e di incentivazione per fare in modo che la digitalizzazione e la globalizzazione diventino catalizzatori di una crescita inclusiva e sostenibile», dice Gurria. E riprendendo un pensiero di Jean Jacques Rousseau, Anthony Gooch, direttore comunicazione e affari pubblici dell’Ocse, propone un nuovo “contratto sociale”: un insieme di diritti e responsabilità per le persone e per i governi, ma anche per tutte le entità che hanno funzioni pubbliche, comprese le aziende private e, a maggior ragione, quelle che “governano” la vita digitale. E a maggior ragione quelle che guidano la trasformazione dell’energia: secondo Stefano Palumbo e Maurizio Urbani – che hanno appena finito di scrivere lo studio “Energia 2030” – «la finanza sarà propulsiva rispetto al cambiamento energetico, agirà in anticipo sulla politica».
L’Ocse invita a pensare in grande: ed è un invito da accogliere con umile entusiasmo. L’Organizzazione si impegna ad aiutare i governi a intraprendere la una grande trasformazione per adeguare il loro servizio alle enormi sfide della contemporaneità. Ma le aziende e i cittadini a loro volta non possono chiamarsi fuori. La privatizzazione che ha accompagnato globalizzazione e digitalizzazione non cancella le esigenze della convivenza civile. Lo spazio pubblico chiede responsabilità anche e soprattutto da parte dei privati. Anche da questo punto di vista, il bisogno di innovazione è tutt’altro che esaurito.
Articolo pubblicato su Nòva il 26 maggio 2019