Di quello che può fare l’intelligenza artificiale nella sua attuale incarnazione si dice più di quanto si comprenda. Non solo per la difficoltà oggettiva di capire come esattamente le macchine imparino a classificare o a riconoscere modelli di comportamento nei dati: una difficoltà che ha convinto Frank Pasquale a scrivere un libro di grande impatto come “The Black Box Society” (Harvard University Press, 2016). Ma anche perché la cortina fumogena delle attività promozionali della tecnologia – aumentata dai racconti di fantascienza e dai timori socio-culturali che naturalmente si diffondono intorno alle grosse novità tecnologiche – genera credenze lontane dalla realtà. Sicché si forma addirittura una sorta di pregiudizio contrario: se non fa quello che i più fantasiosi cantori dell’intelligenza artificiale sostengono, allora è una delusione. Trovare l’equilibrio nel giudizio, insomma, si rivela più difficile del dovuto.
In realtà, l’intelligenza artificiale che si è sviluppata nell’epoca dei big data è una forma di automazione di operazioni statistiche e di attività di classificazione che generano notevoli risultati. E che stanno effettivamente aprendo nuove possibilità. Studiando realisticamente queste possibilità, si comprendono meglio anche i rischi connessi.
Un filone tutto da seguire è per esempio quello dell’applicazione dell’intelligenza artificiale alla gestione delle risorse umane. Secondo Gartner, tra tutte le imprese che nel mondo hanno progetti che fanno uso di intelligenza artificiale, il 23% sta sviluppando applicazioni di questa tecnologia al management del personale. Queste applicazioni sono generalmente concentrate su tre attività: 1. Creazione di chatbot che servano a rispondere automaticamente alle domande dei collaboratori per chiarire vari tipi di questioni sui processi e le operazioni che sono loro richieste; 2. Raccogliere feedback e analizzare gli stati d’animo degli impiegati attraverso le loro manifestazioni pubbliche sui social media e su altre piattaforme; 3. Ricerche sui fenomeni emergenti nell’offerta di lavoro e sulle modalità più innovative per connettere domanda e offerta di competenze e talenti. L’uso dell’intelligenza artificiale per la ricerca diretta e personalizzata di persone da assumere è spesso criticata perché in generale rischia di contenere pregiudizi che – nel caso vengano riconosciuti in qualche modo – anche se non sono voluti diventano altrettanti motivi per crisi anche gravi di relazioni pubbliche.
Ma non è solo un problema di “bella figura”. I pregiudizi, nel trattamento delle persone, impoveriscono le aziende che – oggi più che mai – hanno bisogno di diversità culturale tra i loro collaboratori e dunque non possono automatizzare e standardizzare completamente il loro approccio alla ricerca delle persone da portare in squadra. L’intelligenza artificiale può invece servire egregiamente a trattare grandi quantità di informazioni e a ordinarle in modo che possano essere utilizzate, non per decidere sulle singole persone, ma per facilitare i manager delle risorse umane nell’analisi delle tendenze generali e, soprattutto, per aiutare i collaboratori a raccapezzarsi nella conoscenza che può servire al loro lavoro. L’intelligenza artificiale attuale è di solito un buon assistente efficiente che svolge attività ripetitive e che richiedono molto lavoro. Chi la comprende con realismo ne trae il massimo vantaggio.
Articolo pubblicato su Nòva il 23 giugno 2019