Derrick de Kerckhove si teneva la testa tra le mani. Era solo, quella sera all’inizio degli anni Settanta, nella Coach House, la sede del Centre for Culture and Technology all’università di Toronto guidato da Marshall McLuhan. Si preparava ad abbandonare l’università e tutta la vita che aveva immaginato di vivere.
Sarebbe stato un peccato. Perché de Kerckhove era destinato a diventare un intellettuale originale, un cosmopolita della cultura, un provocatore non violento, capace di insegnare a milioni di persone un modo creativo di pensare i media digitali. Avrebbe aiutato a leggere con un taglio culturale una storia tecnologica destinata a diventare un gigantesco fenomeno economico-finanziario. Avrebbe diretto per un quarto di secolo il McLuhan Program a Toronto trovando i soldi per mantenerlo in vita nonostante una distratta ostilità dell’accademia, avrebbe tenuto corsi in diverse università, compresa la Federico II di Napoli, scritto libri come “Brainframes” (1993), “Intelligenza connettiva” (1997), “L’architettura dell’intelligenza” (2001), diretto riviste come “Media Duemila”. E senza perdere il suo distacco da intellettuale, avrebbe avuto una funzione impegnata, costruttiva, persino confortante. Anche nel pieno delle grandi crisi: dalla fine della bolla di internet del 2000 alla pandemia di questi giorni.
Eppure quella sera nella Coach House per lui tutto – passato e futuro – era perduto. Il giovane de Kerchhove era da qualche anno a Toronto per perfezionare i suoi studi in letteratura francese. Ma seguiva anche altri corsi. Comprese le lezioni di McLuhan. «Quell’uomo parlava con autorevolezza di cose che nessuno capiva. Ma ne parlava in modo tale che si desiderava ascoltarlo» ricorda. Quando “Le Monde” intervistò McLuhan, il professore chiese a de Kerckhove di rivedere il testo francese. Il ragazzo indicò i punti che avrebbero meritato qualche precisazione. McLuhan lo nominò traduttore ufficiale. «Fu una sorta di investitura nobiliare». Come conseguenza de Kerckhove contribuì alla produzione di due libri, “Du cliché à l’archétype” e “D’œil à oreille”: «Qualcosa di più di semplici traduzioni» ricorda de Kerckhove. «McLuhan mi telefonava anche alle due di notte per aggiungere idee che non erano presenti nella versione in inglese».
De Kerckhove racconta al Sole 24 Ore di questi suoi esordi passeggiando proprio davanti a quella Coach House nella quale aveva vissuto quella sua serata di crisi nera. Interrotta dall’improvvisa entrata in scena di McLuhan in persona. «Lei sembra piuttosto triste» osservò il professore. «Ho deciso di lasciare l’università» rispose Derrick. «Che strana idea» commentò McLuhan che volle una spiegazione. «Il problema è l’argomento della mia tesi di dottorato. Non mi interessa. Ma se non la finisco perdo il lavoro all’università». McLuhan gli chiese quale fosse l’argomento. «La decadenza dell’arte tragica nella letteratura francese del XVIII secolo». Il professore si sedette: «Lei non procede perché pensa che la tragedia sia una forma d’arte», disse McLuhan. «Perché? Che altro è la tragedia?», chiese de Kerckhove. «Secondo me, è un “quid”» sorrise McLuhan «una “quest for identity”: è una strategia inventata dai greci per superare la crisi di identità dovuta all’introduzione dell’alfabeto che aveva distrutto la cultura comunitaria tradizionale». Silenzio. Il maestro aveva parlato. «Di colpo, la mia tesi non era più un cumulo di nozioni. Era un problema storico, antropologico, mediatico. Avevo un taglio col quale guardare a tutto quello che sapevo per creare qualcosa di nuovo». Quattro mesi dopo de Kerckhove aveva conseguito il dottorato. McLuhan era presente alla discussione e commentò compiaciuto: «La ricerca è un’attività magnifica quando si sa che cosa si cerca».
Episodio rivelatore. Chi incontra oggi de Kerckhove lo definirebbe un “mcluhaniano non ortodosso”. Che poi, conoscendo McLuhan, è l’unico modo per essere un mcluhaniano. L’accademia, per lunghi decenni, non capì. La ricerca normale vive di fatti, esperimenti, pubblicazioni, metodo. Ma le ipotesi che la scienza empirica deve verificare vengono anche dall’immaginazione, alimentata da percorsi umanistici non sempre formali. Il maestro di de Kerckhove da questo punto di vista era un gigante. Seguiva una sua ispirazione, che i conformisti non comprendevano, ma che peraltro lo sincronizzava col pubblico. «Come quando valutò correttamente il risultato del dibattito televisivo tra John Kennedy e Richard Nixon, nel 1960, dicendo che il primo era fresco (cool) e il secondo accalorato. E il fresco attira, mentre il caldo respinge». Per de Kerckhove, «McLuhan cercava le risonanze tra le idee». Era illuminante. «Viveva di una libertà intellettuale della quale non abusava ma, di certo, approfittava». Con ironia: «L’ho sentito dire: “Non le piace questa idea? Non importa, ne ho anche altre…”.
Negli anni Novanta, nel contesto generato da internet, de Kerckhove avrebbe avuto un ruolo fondamentale per la riscoperta del pensiero di McLuhan. «Eravamo molto diversi» ricorda de Kerckhove. «McLuhan aveva la capacità di arrivare a conclusioni giuste a partire da premesse completamente “fuori di melone”. La sua forza era di riuscire a vedere gli effetti. Studiava le conseguenze. Io cercavo le ragioni. Avevo studiato in Francia, del resto: Cartesio mi aveva segnato in modo indelebile».
L’incontro di de Kerckhove con Jean Duvignaud, uno dei fondatori della ricerca sulla sociologia dell’arte e dello spettacolo, insieme a Pierre Bourdieu e Pierre Francastel, gli consentì di comprendere il senso della differenza. Con Duvignaud, a Tours, studiò l’alfabeto, superando le intuizioni di McLuhan attraverso il ricorso alla neuroscienza. I media, per de Kerckhove, sono tecnologie che “incorniciano” il cervello conducendolo verso modelli di interpretazione coerenti alla loro struttura. L’alfabeto greco è una tecnologia che genera mutazioni nell’attività cognitiva. Per esempio, col riorientamento della scrittura da sinistra a destra si definisce il verso del tempo: «Nel pensiero scritto, si viene da sinistra e si va verso destra: il futuro è da quella parte». Tutto questo si inserisce nel grande dibattito sull’oralità e la scrittura. «La scrittura ha separato lo spettacolo e lo spettatore, la conoscenza e il conoscente, il significante e il significato. Genera una razionalità: come osservava Walter Ong, nel mondo dell’oralità si riportavano i fatti l’uno accanto l’altro; nella scrittura si strutturano relazioni di causa ed effetto; si passa dall’orecchio all’occhio, diceva McLuhan, dalla giustapposizione di suoni all’architettura visibile del pensiero». La sua tesi francese non è pubblicata, ma resta una pietra miliare nell’ecologia dei media. In Brainframes, de Kerckhove avrebbe elaborato intorno al tema dei media come ambienti cerebrali.
Ebbene. La nuova struttura fondamentale, secondo de Kerckhove, è lo schermo connesso a internet. «Ha conseguenze enormi, di portata simile e senso opposto all’alfabeto. Modifica la percezione, come suggeriva John Thackara, visionario del design. Modifica il cervello, come mostra Stanislas Dehaene, neuroscienziato. Ora siamo immersi nella conoscenza. Lo spettatore è lo spettacolo. I tempi si confondono, il passato e il presente sono meno distinti». E forma un’intelligenza “connettiva”: «Il concetto mi è stato suggerito da un artista per aiutarmi a superare la mia ritrosia a usare il termine “intelligenza collettiva” diffuso da Pierre Lévi. Persona molto gentile, Lévi mi dice: “Combattiamo la stessa battaglia intellettuale”. Temo di non essere d’accordo. Il collettivo è il risultato di un processo sociale che anonimizza le persone e omogeneizza i modelli di partecipazione. Una piattaforma invece connette persone che restano sé stesse». La cultura digitale è una complessa trasformazione. E continua a evolvere. Oggi sulla rete si sviluppa un doppio digitale per ciascun umano connesso. «Tutti i dati che si lasciano in rete sono ordinati, elaborati e analizzati per fornire informazioni, consigli, obblighi. Il doppio digitale è una rappresentazione della persona fisica che agisce nei diversi contesti, ricordando tutto. Questo “machine learning personale” può diventare un liberatore o un grande inquisitore. C’è bisogno di discutere sui diritti umani e di aggiornarli per questo contesto». Si sviluppa una sorta di sistema limbico globale che, appunto, proprio in questi giorni di pandemia rivela le sue conseguenze. «In Italia e in altri paesi occidentali l’emotività ha preso il sopravvento, i media tradizionali hanno ripreso l’emozione che circola in rete e le misure decise sono esagerate: Corea, o Singapore, dimostrano un atteggiamento completamente diverso con un uso razionale della rete».
Il mondo digitale: molti lo raccontano concentrando l’attenzione sugli oltre 4mila miliardi di dollari di capitalizzazione dei giganti di internet, citando incessantemente le ricchezze dei capitalisti del web, narrando le vicende degli startupper diventati miliardari, oppure ricordando le crisi dei settori rivoluzionati dal web, dall’editoria al commercio; in realtà, il mondo digitale è soprattutto una questione di conoscenza, di cultura, di mentalità. Di certo, la connessione tra il cervello e lo schermo non può essere solo tecnologica. Avrà sempre bisogno di qualcuno che, come de Kerckhove, la pensi in termini ecologici e culturali. Altrimenti gli umani subiranno, inconsapevoli, fino a che sarà troppo tardi. Le tecnologie spostano il limite del possibile. Ma la libertà è conoscenza. Le parole sono importanti.
Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 29 marzo 2020