cultware: si scrive codice, si legge azione

Verlan. Negli anni Settanta i ragazzi di Parigi hanno inventato un linguaggio per capirsi soltanto tra loro e difendersi così dall’invadenza della società adulta. Le parole del verlan sono costruite invertendo l’ordine delle sillabe delle normali parole francesi, per poi mutare in base all’uso. Il nome di quel gergo, per esempio, viene da "l’envers" ("il rovescio", appunto) che diventa verslen e quindi verlan.

Già. Può essere divertente conoscere una lingua segreta. Oppure può essere uno strumento di potere, come il latinaccio col quale il medico del Malato immaginario di Molière tiene le distanze dal popolo dei pazienti. Ma in generale un linguaggio è uno strumento fondante per una comunità. E con la progressiva sedimentazione di esperienze storiche di quella comunità, il linguaggio diventa uno strumento fondante di una cultura. Il software è un po’ di tutte queste cose. Con un carattere tutto suo. Quale?

Per rispondere si può consultare SourceForge, il più grande sito di scambio di informazioni sul software open source del mondo. Con due milioni di iscritti che presentano le loro creazioni, le testano, le condividono, le distribuiscono, spesso aiutandosi a vicenda per eliminare gli errori di programmazione dei loro software. Il suo network è visitato da 34 milioni di persone diverse ogni mese. Si pensano come geek, o hacker, o semplicemente sviluppatori. Hanno qualche problema ad accettare quelli che non ce la fanno a capire di che cosa parlano. Ma a loro volta sono piuttosto umili nei confronti della massa di problemi che incontrano: perché ormai il loro linguaggio è diventato la forma con la quale si aggiunge valore e si migliorano le funzioni di quasi tutti i prodotti tecnologici, si scrivono quasi tutti i prodotti editoriali, si curano i malati e si guidano le automobili, si fa commercio e politica, si fanno film e giochi, arte e guerra… «La cultura del software trasforma ogni problema in una sfida a trovare una soluzione: c’è sempre un’idea da scoprire per scrivere qualcosa che funziona» dice Paolo Valdemarin, storico geek e fondatore di Evectors. E le sfide non mancano. Il software è ovunque: se, a sentire DataMonitor, il settore vale circa 300 miliardi di dollari nel mondo, in realtà il suo peso economico è molto più vasto perché incorporato nella produzione, distribuzione, fruizione di quasi ogni merce. A partire dalla più strategica: il denaro.

L’importanza del software cresce a vista d’occhio. La quantità di informazione prodotta nel mondo, quest’anno, è pari a 1,2 zettabyte, riporta l’Idc. Il che significa che è aumentata più di dieci volte dal 2005 a oggi. Ed è ormai il doppio della quantità di informazione che può essere registrata nella memoria dei computer di tutto il mondo. Il resto, evidentemente, passa. In forma di messaggi tra persone, programmi televisivi, dati che i computer trattano e gettano via. Non c’è modo di usare questa enormità di conoscenze se non si fa qualcosa: cioè se non si scrive software per gestirla.

Il software è un linguaggio, una tecnologia, ma anche un generatore di linguaggi e di tecnologie, che a loro volta abilitano nuove attività. Creando nuove soluzioni, crea nuovi problemi. Che a loro volta chiedono soluzioni. Che entrano nella vita quotidiana e, servendola, la modificano.

Così, in senso antropologico, il software fa cultura. È originariamente opera di tecnici che però hanno di fatto superato i limiti della loro tecnologia. E imparano a conoscerne le conseguenze, se vogliono che il frutto del loro lavoro sia apprezzabile. Trovandosi dunque a confrontarsi con l’insieme delle dimensioni sociali che di tecnologico non hanno che gli strumenti sui quali si sviluppano. Del resto, come diceva il geografo Pierre Gourou, la cultura in fondo coincide con la tecnologia. Il che, nel mondo attuale, è sempre più evidente.

Sicché l’incontro tra il linguaggio segreto dei programmatori e la quotidianità di chiunque altro diventa un tema di riflessione. Se il software è tanto importante per far funzionare le macchine e se il modo migliore per usare le macchine è conoscerne il funzionamento, la segretezza tecnica del software dovrebbe lasciare il posto a una diffusione di competenze più ampia: gli utenti di computer, di siti internet, di tablet, di macchine fotografiche, di telecamere, di giochi, di tv, di banche, e mille altri beni, possono continuare a essere come analfabeti di fronte al linguaggio parlato da chi ha creato le loro macchine? Oppure, di dovrebbe immaginare che la prossima tappa della semplificazione degli oggetti tecnologici sia proprio la semplificazione della loro programmazione, per consentire a chi le usa di modellarle fino a conferire loro un valore che chi le ha progettate non poteva immaginare?

Molti grandi successi recenti nel mondo della rete vanno proprio in questa direzione. La libertà con la quale si utilizza, modifica, modella il software del quale è fatto Twitter per esempio ha creato un vero e proprio ecosistema di attività, non immaginato da chi aveva originariamente progettato quella piattaforma di comunicazione digitale. E molti altri prodotti sono sempre più caratterizzati da qualcosa del genere: le prime versioni vengono rilasciate perché gli utenti le provino, trovino i difetti, inventino gli utilizzi. E generino, insieme ai programmatori che le hanno pensate, il valore. L’analfabetismo completo degli utenti nei confronti delle macchine è una causa di impoverimento generale.

È l’ennesimo problema degli sviluppatori di software che hanno compreso quanto i loro strumenti tecnici si siano trasformati in valore sociale e culturale.

Perché anche il carattere peculiare della cultura del software potrebbe diffondersi oltre il mondo dei geek. Il loro modo di affrontare i problemi trasformandoli in sfide a fare qualcosa, in un contesto nel quale i mezzi per riuscire in questa operazione sono a disposizione di tutti, come mostrano le storie pubblicate in questo numero di Nòva, potrebbe contribuire almeno in parte alla liberazione dalla passività nei confronti delle difficoltà. Anche un timido superamento della barriera tradizionale tra tecnici e utenti del sofware avrebbe il valore di attivare un approccio culturale nel quale i limiti possono diventare opportunità. O, appunto, sfide da raccogliere. Non per nulla un osservatore attento delle vicende mondiali come Moisés Naìm, direttore di Foreign Policy, prevede che la chiusura cinese nei confronti di internet finirà, perché la cultura del software continueranno implacabilmente a infrangere tutte le tecnologie che bloccano la libertà della rete nel gigantesco paese asiatico. Non per nulla qualunque forma di impedimento alla copiatura dei programmi online viene di solito craccata da ostinati geek che vogliono far bella figura con i loro pari, generando una strutturale necessità di innovazione, ma anche arricchendo la vitalità delle conoscenze pubbliche. E non per nulla la spinta progressiva dei creatori di programmi per l’arte, i film, la musica in digitale sembrano fatalmente destinati a generare prima o poi strumenti in grado di vincere anche qualitativamente contro i loro concorrenti analogici: come mostrano TheInfluencers.org, gli artisti che conoscono il software hanno inevitabilmente uno strumento in più per dipingere la contemporaneità.

Il software non è una letteratura del lamento o della denuncia nei confronti dei problemi: è una scrittura dell’azione.

  • Lorenzo |

    Caro Luca, ero molto interessato all’argomento del tuo articolo. Ma non dici niente. Rileggilo, per favore. E rileggi l’ultima riga, cos’è, neo-marinettismo?
    Con stima
    Lorenzo

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